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I pensieri dell'Altrove

Eri Tu...

Eri Tu...

Avevo una pena pesante, in questo luglio che sta passando e che proprio luglio non è sembrato. Qui, sui seicento metri sul livello del mare, ancora fino a ieri si è dormito con il copriletto di cotone ed io ancora con il pigiamino lungo. Ancora non ho fatto funzionare il condizionatore, ancora di sera metto un maglioncino leggero, ancora poco sole in giardino. Ogni pomeriggio si sono scontrati nel cielo eserciti agguerriti di nuvole nere cariche di ingombranti e rumorose piogge estive. Avevo una gran pena, ed una rabbia profonda truccata di impotenza, una frustrazione simile ad una morsa d'acciaio nel cervello, un rigetto assoluto verso un destino che metteva alla prova le mie resistenze, il petto sfilacciato come una matassa di cotone idrofilo di marca scadente. Pensavo ad investimenti di energie che stavo dissolvendo, a convocazioni urgenti di convinzioni positive, a trattative sofisticate con la mie paure, le mie stanchezze, la mia angoscia, la mia umanità irrigidita. Un'anestesia totale per le cose del mondo, per le proposte della vita, per i giorni di festa e per quelli normali, niente che fosse sconvolgente o entusiasmante, tenero o aspro. Andavo così, in questa pena di luglio, spostando il corpo in tragitti pesantemente uguali, in ore lunghe e asfittiche, in attese annunciate e temute, sperate e oppressive. I corpi viaggiano, vanno al mare, a New york, vanno a passeggio.Si scontrano con altri corpi, si amano, si fanno schifo, si ammalano. E quando si ammalano si fermano. E la malattia diventa un nome, un luogo, non solo uno stato. Diventa una stanza con le tende bianche, con una poltrona di velluto color  senape, un copriletto azzurro come il cielo fresco e mattutino di primavera. Diventa un luogo di sentimenti, di densità, di parole che non hai mai incontrato prima, di significati possibili e raggiungibili solo in quel rettangolo di spazio, di percezioni come spigoli di rocce  che senti ti si infilano nelle  spalle, di fili di ragnatele che si attorcigliano come serpenti al respiro irregolare. Avevo una gran pena, in questo luglio strano, e non avevo voglia di parlare, di sentire, di guardare, era come se tutto fosse stato già detto, ascoltato e, poi, male assorbito. Era tutto un'attesa sconosciuta ma, inspiegabilmente, per me già avvenuta. Era solo un giro di letto triste, il ronzio di un motorino di materasso anti decubito, un sudore, una carezza alle ossa, un pensiero d'amore. Era un bacio tenero ed infelice, una ciocca di capelli, una mano sottile, una preghiera asciutta che non dava pace, una parola vuota, una parola sola, una parola ultima. Era la tua bellezza, il tuo cuore grande, la tua insultante malattia, la tua identità arresa e confusa su un cuscino, l'impegno diligente ma inutile del tuo battito, le tue scapole tornate bambine. Era la tua guerra finale, la tua vita tenuta in ostaggio, la tua pazienza, la tua santa rassegnazione. I tuoi occhi vuoti di dolcezza, le tue carezze ferme nell'aria in un tempo oramai provvisorio, il tuo biglietto scaduto, il tuo respiro finito. Eri Tu... Ciao, Mà. (Etta)

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Mariantonietta Ippolito

Mariantonietta Ippolito

Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.

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