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I pensieri dell'Altrove

Quanta umanità in un sussurato "Ho capito"

Quanta umanità in un sussurato "Ho capito"

Il momento migliore di una discussione, di uno scambio di idee o di una semplice conversazione è quando ad un certo punto ti senti dire: "ho capito". E te ne accorgi dagli occhi, di chi ti dice questa cosa, perché sono occhi complici nella verità della comprensione, ma soprattutto della convinzione. "Ho capito" deve essere pronunciato piano, ma in maniera chiara, non deve essere urlato perché in questo caso introduce un sottile elemento di rimprovero; non deve essere frettoloso, perché ti metterebbe in un'ansia imbarazzante e sottintende un saluto appena un attimo dopo; non dovrebbe essere finto, perchè si può sempre chiedere all'interlocutore, magari a sorpresa, di ripetere tutto, ma proprio tutto, quello che è stato appena espresso e che cosa veramente "ha capito"; deve essere pieno e tondo, senza l'influenza vanesia della saccenza e non deve essere buttato lì, in modo sbadato, perché se per caso hai di fronte una rompipalle come me se ne accorge e la può vedere come una sostanziosa provocazione da accettare e non rimandabile all'indomani. Quando mi capita di sentirmelo dire, con l'intensità con cui vorrei sentirmelo dire, io mi sento improvvisamente illuminata, pacificata, rassicurata. Addirittura contenta. Questo perché tentiamo con tutte le nostre forze di portare le nostre intenzioni, o le nostre convinzioni, su basi di presunzioni che si scontrano con altrettante presunzioni, non si cede di un millimetro dalle nostre posizioni, si ha il contagiosissimo sospetto di avere a che fare con opinioni (quelle degli altri) stupide, sbagliate, non veritiere. Così, quando accade che 'l'altro' prende atto di una possibile condivisione e accettazione di una tua idea o di un tuo concetto, ti senti compreso non da una singola unità, ma per un attimo dal mondo intero. Ce l'hai fatta, a perforare il guscio duro della diffidenza, della differenza, della incomunicabilità. Ci sei riuscito, a fare ascoltare il tuo profondo più onesto, a porgerlo come un pezzo di pane, a stabilire contatti che vanno oltre la voce e le mani, a comunicare il tuo pensiero che ora diventa un segreto svelato e diventato condiviso. Cosi, se in quel momento l'aria potesse parlare, se le particelle polverose fossero attente, se la pelle diventasse respiro, intercetterebbero quel senso lieve e ampio che dà il sentimento quasi sconosciuto della gratitudine. La gratitudine di chi in uno sguardo ha colto l'accoglienza e in un "ho capito" ha scansato e allontanato, almeno per un giorno, la malattia della solitudine. La disposizione fra il detto ed il recepito è in ordine, le dimenticanze si ritirano, l'umanità sottile e intelligente riemerge e diventa trasparenza. Poi, volendo, per un po' si può anche smettere di stare a spiegare.

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Mariantonietta Ippolito

Mariantonietta Ippolito

Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.

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