IL MATTINO
Cultura
23.03.2024 - 16:58
Philip Roth
Di Philip Roth sappiamo tutto o quasi, a partire da quel Nobel mancato, Nobel che attraversa la sua lunga storia letteraria, che passa per una masturbazione con una fetta di fegato e due tormentati matrimoni. In mezzo ci siamo noi, l'Europa, che tanto deve alla letteratura americana da un certo punto in poi della sua storia identitaria, e c'è l'America. È una storia appassionata, spesso lacerante, quella di Philip Roth che anche nel lettore lascia ampi margini di movimento, per una rielaborazione del proprio vissuto. La continua riscrittura della propria vita, ad opera di Philip Roth, costringe chiunque, scelga di leggerlo, di porsi tutte le sue stesse domande sulla politica, sulla religione, sul sesso, sulla morte. Vita che soprattutto negli ultimi anni a Roth era sembrata più abbordabile, avendo capito che come già svegliarsi ogni giorno bastasse per essere felici, con buona pace di tutti i suoi tormenti esistenziali pregressi. Anche in questo dimostrava di essere stato a passo con i tempi, come accade solo agli scrittori di razza, alla cui categoria apparteneva, senza ombra di dubbio, e perfettamente in linea con tutte le odierne teorie, che ci impongono di camminare più leggeri perché la felicità è un’attitudine e una scoperta quotidiane, più che una conquista da scontare vivendo in tensione. E così, alla fine, quel lavoro costante e maniacale operato da lui sulla pagina, finalmente si era tramutato nell’abbandono della fatica di vivere, a dispetto di tante cupezze e anche di tanti strappi culturali, ebraismo compreso. Roth aveva rifiutato, da subito, di appartenere a una tribù, quella ebraica, aspirando molto più semplicemente, e perciò più difficilmente, a essere Philip Roth e basta. E questo di certo gli è riuscito grazie alla scrittura. Del resto l’esercizio fisico che impone la scrittura comporta la totale liberazione da qualsiasi tormento, una volta che si sono messi a bada tutti i propri demoni. Da qui nasce anche il rifiuto dell’etichetta di scrittore ebreo-americano. Eppure Roth era americano, e questo era ben più che un fatto. Come americani erano i suoi sogni interrotti, la caduta come presenza sullo sfondo delle sue storie, un convitato di pietra che serviva a rendere ciò che scriveva reale e condivisibile per qualsiasi suo lettore. Il suo sistema di pensiero, che si arricchirà di spunti a mano a mano che vivrà, era chiaro e certo. Come chiaro e certo era il suo mestiere di scrittore, al punto da averlo abbandonato perché stanco di scrivere. Stanco di non avere più una vita tutta sua a portata di mano, e anche tormentato da un mal di schiena che alleviava con il nuoto. Del mestiere di scrivere aveva raccontato ne “Lo scrittore fantasma” edito da Einaudi, casa editrice in Italia di quasi tutte le sue opere, fino all’altro ieri, l’Adelphi le è subentrata scatenando un terremoto nel mondo editoriale non solo italiano, proprio per la grandezza di Roth e del suo essere letteratura viva. Ma i tempi cambiano e lo stesso Roth ci avrebbe riso su, tanto più che il cambio di copertine conferirà alla sua opera una ieraticità maggiore, è ironico, benché non ne avesse/non ne abbia bisogno. Tornando a “Lo scrittore fantasma” si tratta di un classico utile per chiunque non aspiri solo a scrivere, ma che davvero sappia e voglia farlo di mestiere con assoluta adesione al mondo della parola scritta.
«Io prendo le frasi e le giro. Questa è la mia vita. Scrivo una frase e la giro. Poi la guardo e la giro di nuovo. Poi vado a pranzo. Poi torno qui e scrivo un’altra frase. Poi prendo il tè e giro la frase nuova. Poi rileggo le due frasi e le giro tutt’e due. Poi mi sdraio sul sofà e rifletto. Poi mi alzo, le cancello e ricomincio da capo.
Nulla di quanto avessi mai scritto mi aveva fatto sudare come quella lettera. Appena lo avevo scritto, tutto ciò che era incontestabilmente vero mi appariva platealmente falso, e più mi sforzavo di essere sincero, peggio andava. Alla fine gli mandai la decima stesura, e poi cercai di ficcare il braccio nella fessura per estrarla dalla buca delle lettere.
Non gli era successo nulla? Caspita, il genio gli era successo, l’arte gli era successa; quell’uomo era un visionario!
Non rendeva giustizia a uno scrittore se non lo leggeva per qualche giorno consecutivamente e per almeno tre ore di fila. Altrimenti, nonostante le note e le sottolineature, perdeva i contatti con la vita interiore del libro, e tanto sarebbe valso non averlo neppure cominciato. A volte, quando inevitabilmente doveva saltare un giorno, tornava indietro e ricominciava da capo, per non essere tormentato dall’idea di avere fatto un torto a un autore serio.»
Perché Philip Roth era davvero bravo, e di certo chi è incapace di accettare la vita e le sue complicate contraddizioni mai proverà piacere a leggere i suoi libri, libri che possono sembrare talvolta urticanti e dolorosi. Come non potrà trovare niente di interessante in lui, chi cerca il bello, il buono, il giusto nella Letteratura, o il politicamente corretto. Tutte idee per la verità sbagliate, perché mai come in questo periodo anche di difficoltà esistenziali e di subbuglio civile, la lettura di Philip Roth riesce utile. Il suo punto di vista da maschio bianco, anche sulle cose del sesso, risulta ben più che illuminante, proprio perché è frutto di una lunga presa d'atto e di un’osservazione costanti. Osservazione che parte dagli anni ’60, gli anni della rivoluzione sessuale, per arrivare fino ai nostri giorni, con tutte le problematiche odierne. Problematiche legate ad una scarsissima percezione di sé, e che valevano allora come valgono ancora oggi, da qui il loro farsi letteratura nell’opera di Roth. Il sesso, resta per Roth, l’elemento di rottura.
«Un uomo non avrebbe i due terzi dei problemi che ha se non continuasse a cercare una donna da scopare. È il sesso a sconvolgere le nostre vite, solitamente ordinate.»
Ma il sesso è anche l’unico elemento davvero capace di riuscire a semplificare la vita, se proprio se ne hanno la voglia e le possibilità. In questo fa ripensare a D.H.Lawrence e alla necessità di questo modo tutto maschile di procedere attraverso la vita a passo spedito, talvolta veloce, talvolta in perfetta stasi, come unica compagna la letteratura. Compagna da abbandonare quando non se ne ha più voglia. Niente di più seducente, maschile e contemporaneo, ma anche di eterno perché nel maschio ciò che contano sono l'abbandono e il momento refrattario. La ragione per cui smettere di scrivere per Roth è stata la più grande delle conquiste e la completa chiusura del suo cerchio letterario.
La morte?
Una semplice ratifica.
«Tu sei quello che è sempre lí a cercare di minimizzare le cose. Sempre lí che si sforza di essere moderato. Mai dire la verità, se credi che possa ferire i sentimenti di qualcuno. Sempre pronto ai compromessi. Sempre pronto ad accontentare la gente. Sempre lí a cercare di trovare il lato migliore delle cose. Quello educato. Quello che sopporta pazientemente ogni cosa. Quello che ha una dignità da difendere. Il ragazzo che non viola mai le regole. Quello che la società ti ordina di fare, tu lo fai. Le norme della convivenza civile. Ci devi sputare in faccia alle norme della convivenza civile.
Siamo soli, profondamente soli, e in serbo per noi, sempre, c’è uno strato di solitudine ancora più profondo. Non c’è nulla che possiamo fare per liberarcene. No, la solitudine non dovrebbe stupirci, per sorprendente che possa essere farne l’esperienza. Puoi cercare di tirar fuori tutto quello che hai dentro, ma allora non sarai altro che questo: vuoto e solo anziché pieno e solo.
La vita è solo un breve periodo di tempo nel quale sei vivo.»
Ps:Talvolta la bravura e il mercato si incontrano per davvero e questo incontro è più potente della morte stessa. L'agente dell'eredità di Philip Roth, Andrew Wylie, detto The Jackal, lo ha venduto al migliore acquirente, proprio perché poteva farlo in virtù del suo essere letteratura vera e quindi merce contante e sonante.
«È il mercato, bellezza, e tu non ci puoi fare niente. Niente!» parafrasando Humphrey Bogart e la sua battuta finale in "L'ultima minaccia" di Richard Brooks.
edizione digitale
Il Mattino di foggia