IL MATTINO
Società
01.09.2023 - 09:18
Per comprendere Cesare Romiti e il suo operato serve partire dal fatto che più che un manager è stato un padrone, anzi un esponente della “razza padrona” tratteggiata con grande abilità da Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani nel loro libro del ’74, che aveva per l'appunto come titolo “Razza Padrona. Storia della borghesia di Stato e del Capitalismo Italiano dal 1962 al 1974"
La Razza Padrona ( grassetto)
«Era un luglio molto caldo quello del 1974. E faceva caldo anche a casa di Inge Feltrinelli, dove era in corso uno dei suoi ricevimenti senza tema: ci si vedeva perché si aveva voglia di vedersi. Con Scalfari si stava discutendo del fatto che vari editori stavano chiedendo (a lui e a me) biografie di Eugenio Cefis, in quel momento l’uomo forte degli affari e della politica in Italia. Inge, che stava passando accanto a noi, si fermò di colpo e disse: “Scrivetela per me questa biografia, se accettate domani mattina vi mando il contratto e in agosto tengo aperti gli uffici per voi. A settembre siamo fuori».
La loro tesi era semplice: dopo la nazionalizzazione dell'industria elettrica (1962) e la scomparsa delle vecchie holding private, il potere economico era passato nelle mani dei «boiardi» delle aziende pubbliche, favoriti dai partiti nell'accesso ai fondi. Il che, secondo Scalfari e Turani, aveva indebolito l'industria privata e la Confindustria, a vantaggio della nuova «borghesia di Stato».
Il libro però come risultato portò alla demonizzazione di Eugenio Cefis e alla celebrazione di Nino Rovelli(un capitolo entusiasta è dedicato a lui) che però dopo cinque anni dall'uscita del lavoro di Scalfari e Turani rivelò di essere anch'egli un bluff e infatti la Sir, che a Rovelli faceva capo, cadde a causa dei bilanci falsi.
«L'unico che ha provato a rovesciare il copione di Razza padrona, purtroppo tardivamente, è stato Marcello Colitti (1932-2015), che nel suo libro di memorie (Eni. Cronache dall'interno di un'azienda; Egea, 2008), ha dedicato un capitolo illuminante, con risvolti autobiografici, al «problema Rovelli». Perché «problema»? Semplice: nell'accedere ai finanziamenti pubblici per il suo gruppo chimico (Sir, Società italiane resine), Rovelli fu talmente astuto da creare più di un grattacapo a un grande gruppo come l'Eni: «Per ottenere i crediti e le sovvenzioni, che in teoria sarebbero spettate solo alle imprese piccole e medie, Rovelli aveva diviso il suo piccolo impero in un numero stravagante di società, ognuna delle quali posseduta da un'altra, e ognuna proprietaria di un pezzo, più piccolo possibile, degli impianti che andava a costruire. Ma tutto ciò non bastava, e poiché Rovelli non avrebbe certo trovato capitale sul mercato azionario, la sua principale fonte di crediti furono le strutture pubbliche, l'Imi e il Crediop».
Cesare Romiti (grassetto)
La figura di Cesare Romiti alla luce di tutto è il frutto proprio di questo corto circuito di potere tra pubblico e privato tipico dell'Italia, perché in Italia l'imprenditore alla maniera anglosassone, ma anche per come lo descrive il codice di “Diritto Commerciale”, non è mai esistito.
Ciociaro, mandatario di Enrico Cuccia presso la FIAT, era l'altra metà di Gianni Agnelli, di cui non aveva né le buone maniere, né il fascino. Pativa non poco quel suo essere un gradino sotto l' Avvocato, mancanza che colmava con un esercizio smodato e brutale del potere, cosa che l' Avvocato gli consentiva di fare, tanto più che dopo la vendita e il riacquisto delle azioni FIAT da Gheddafi, a opera di Enrico Cuccia, non poteva in alcun modo dimostrare di soffrirne la presenza.
In fondo si tolleravano dandosi del “Lei”, a rimarcare un distacco e una diversità che oltre che esistenziale era del sentire.
Una convivenza non felice la loro, ma che ha consentito agli Agnelli di continuare a produrre auto, mentre in realtà accumulavano soldi grazie alle capacità politiche di Cesare Romiti.
Perché di fatto l’esercizio del potere da parte di Cesare Romiti era politico, se così non fosse stato non avrebbe potuto perseguire l'interesse economico in maniera sfrenata, interesse economico che poneva sopra ogni cosa, e che manifestava anche in maniera sprezzante.
Tra le sue molteplici manie, un modo per blindare i sentimenti e quindi la possibilità di entrare davvero in contatto con il mondo degli altri, c'era l'avversione per chi non calzasse scarpe con la punta tonda, una delle prime cose che osservava dei suoi interlocutori, perché questa cosa gli dava l'immediata misura del mondo in cui l'altro si muoveva e del suo modo di stare al mondo.
Vizi e vezzi di un uomo che aveva fatto la fame, e che credeva nel potere del danaro. Tutto questo, alla fine, più che un uomo libero lo rendevano un po' vittima degli stessi giochi che amava imbastire ma da cui era anche agito.
E per queste ragioni era un gaudente, come tutti quelli che non nascono negli agi, e che godono della visibilità ovattata ma anche servile che il potere, quello vero, regala.
Qualsiasi giudizio di merito o di valore nel suo caso sarebbe assolutamente sbagliato, proprio perché era l'incarnazione di ciò che la “macchina uomo” al servizio del potere è capace di produrre.
Ha sempre agito per tutelare interessi economici di cui era convinto di essere parte, e questa sua profonda convinzione lo ha fatto vivere a lungo, ma di certo ciò che ha fatto non aveva lo scopo di rendere il mondo un posto più sereno e uguale per tutti.
L'unico che non poteva in alcun modo sottomettere era proprio l' Avvocato, e dopo la sua morte si sarà sentito più padrone ma anche più solo.
Ipotesi non così peregrina.
Ha attraversato le aziende chiave italiane dalla Bombrini Parodi Delfino, all'Alitalia, fino a diventare, grazie alla Fiat, un vero uomo di governo per quella marcia dei quarantamila del 14 ottobre del 1980.
Per la prima volta, nella storia della FIAT, i quadri marciarono per tre giorni con lo scopo di bloccare i licenziamenti, licenziamenti che Cesare Romiti aveva proposto, ma che con la marcia, che aveva approvato, poteva gestire in tutt'altro modo, decretando così la fine del potere operaio in fabbrica e la sua irrefrenabile ascesa, a discapito della stessa azienda per cui lavorava, e che avrebbe trovato poi in Sergio Marchionne un più illuminato amministratore.
Cose chiare già quando Cesare Romiti era in vita e che oggi nella loro brutalità sono ancora più difficili da digerire, perché sono state la sua fortuna ma anche un po’ la rovina del paese, per quanto alla fine a furia di fare a cazzotti con se stesso e il potere sembrava quasi essere diventato ragionevole, come sembrerebbe da questo pezzo di intervista al Corsera del 2016
«La ricostruzione deve partire dal basso. Dai territori, dai paesi, dalla provincia. Dobbiamo ricostruire l'Italia pezzo a pezzo. Se avessi vent'anni, partirei per Amatrice. Ogni comunità si dia da fare. Le scuole cadono a pezzi, i ragazzi devono portarsi i gessetti da casa? Allora coinvolgiamo le famiglie. Se chiedi agli italiani uno sforzo per lo Stato, si chiamano fuori. Ma se chiedi uno sforzo per il loro ospedale, il loro parco, la loro strada, allora rispondono. Non è possibile che alla prima pioggia i fiumi esondino, la terra frani. Ripartiamo da lì: non opere straordinarie; manutenzione del territorio. Così induci la gente a investire i risparmi, paghi salari, fai ripartire la domanda interna».
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