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Analisi

Il corpo come espressione barocca e cristologica della parola o della vanità

Il corpo come espressione barocca e cristologica della parola o della vanità

«Cos’è la storia? Le sue radici sono in secoli di lavoro sistematico dedicato alla soluzione dell’enigma della morte, così che la morte stessa possa essere sconfitta. Ecco perché le persone scrivono sinfonie, e perché scoprono l’infinitezza matematica e le onde elettromagnetiche».
Scrive Boris Pasternak ne “Il dottor Zivago”, e a suo modo, e nel suo celeberrimo romanzo, cerca di sconfiggere la morte perché la scrittura è un padrone crudele, a detta di Truman Capote, ma è un padrone crudele che ha anche il potere, enorme, di fare compagnia, di modificare l'andamento della realtà, e di sconfiggere la morte, per chi della scrittura fa un mestiere, per la semplice ragione che scrivendo si parla a sé e a chi legge, lasciando così un'impronta del proprio passaggio terreno, un'impronta indelebile. Un atto di vanità potente quanto le parole stesse, che deve essere tenuto a mente, diversamente non si procede nella vita e quindi nella scrittura.
È sì chi scrive cammina con le parole, e con ciò che ogni volta le parole lo portano ad affrontare, un fatto questo che diventa testimonianza e possibilità di modificare il corso delle vite degli altri, attraverso le riflessioni che, inevitabilmente, le parole scritte permettono di fare in chi legge.
Chi scrive sa che qualsiasi cosa gli accadrà, una volta contestualizzata, diventerà specchio per sé e per l'altro, soprattutto se si tratta di infrangere tabù come: differenze di genere, malattie, fatica di vivere.
In fondo, l’eccezionalità di vivere in salute e senza affanni, non ci fa comprendere quanto la vita di ognuno possa essere molto più complessa e sfaccettata di così, visto che il benessere e la salute sono conquiste faticose nel nostro mondo, mondo che si regge sul caos e anche sulle disuguaglianze.
Per questo tutto ciò che inficia la nostra serenità è relegato nello spazio dell’indicibile, e invece serve scrivere anche e soprattutto dell’indicibile, perché quando davanti a noi è tutto talmente piano cresce la certezza che mai moriremo. E invece la morte ci segue passo passo, e le malattie più varie ce lo dimostrano. Una sorta di allenamento alla morte questo delle malattie, un allenamento alla morte necessario per farci abituare alla nostra insignificanza, all'interno del grande gioco della vita.
Per questa ragione non se parla mai di queste cose, è difficile accettare la propria insignificanza oggi più di ieri, ma chi scrive, ed è famoso proprio per questo, ha il diritto di tacere?
Non credo, soprattutto se la vanità prende il sopravvento. Affermare la propria necessità di vivere tutto il tempo che ci è stato assegnato è un fatto importante, talmente importante da doverlo anche testimoniare, dando la possibilità agli altri, ai lettori, di capire cosa non fare quando l'epilogo diventa chiaro, al punto da poterne avere la certezza. E a cosa serve questa dimostrazione? Serve ad aprirsi ancora di più al mondo in un frangente di questo tipo. Un fatto questo che necessita di una grande lucidità/ vanità e di braccia capaci di accogliere.
In fondo scrivere dei propri malanni è una richiesta di aiuto e di potere, e anche una richiesta di traghettatori capaci di portarci nell'al di là. Un fatto non proprio nuovo né originale, in letteratura e nell'arte tutta. È questa richiesta d'aiuto impegnativa, guardare la morte da presso è l'esperienza meno piacevole che si possa fare, ed è un'esperienza che non può essere imposta, ma che può affrontare insieme al malato solo chi: o è troppo solo per dire di no o è troppo legato a chi sta male da ritrovarsi nel vortice, suo malgrado. Tutti gli altri, anche se prossimi, difficilmente possono essere chiamati a correità. Nessuno vuole vedere il dolore di un altro, nemmeno chi in mezzo ai malati ci lavora, figuriamoci chi non è attrezzato per farlo.
Scrivendone invece si allarga la prospettiva dei partecipanti, in maniera cristiana e mediatica, e attraverso la scrittura la condizione della malattia diventa un fatto ordinario, un fatto ordinario che fa diventare il traghetto della morte un altro modo di fare andare avanti la vita attraverso le parole.
La grande conquista di chi scrive oggi è proprio questa: quella di potere affrontare il dolore non più da solo, e senza il bisogno di gesti estremi o dell’autodistruzione, come da sempre gli scrittori e le scrittrici ci hanno abituato. Oggi grazie alla società di massa (qualche volta anche la società di massa è utile) la solitudine della scrittura può diventare altro, tanto che chi scrive può scegliere di usare il corpo come vettore, senza bisogno di maschere. Un fatto questo che ha a che fare ancora una volta con il cattolicesimo, che fa mostra del corpo di Cristo per dare un esempio di attaccamento alla vita e alla carne.
Una totale adesione alla realtà e alla irrealtà, con la manifesta intenzione di dare maggiore potere a tutto ciò che un autore produce. Del resto la morte e la malattia sono filoni narrativi collaudatissimi, il barocco è stata la più grande espressione di questo, e la sua messa in scena è stata la più grande campagna pubblicitaria di sempre.
E sì perché scegliendo di rappresentarsi attraverso la narrazione della morte in vita si compie una straordinaria operazione pubblicitaria.
E non è questa la più violenta e narcisista espressione della scrittura stessa?
«Ho realizzato di essere morto e poi rinato un gran numero di volte, ma non potevo ricordarlo solo perché i passaggi dalla vita alla morte e poi di nuovo alla vita sono così impercettibili, un’azione magica per un non nulla, come addormentarsi e svegliarsi di nuovo un milione di volte, l’assoluta casualità e ignoranza di quel che succede. Ho realizzato che è solo per la stabilità dell’Anima che questi frammenti di nascita e morte possono avvenire, come l’azione del vento su un puro, placido, immobile specchio d’acqua. Ho sentito la dolce, eccitante beatitudine, come una gran botta di eroina direttamente in vena; come un sorso di vino nel tardo pomeriggio che ti fa sussultare; i miei piedi formicolavano. Pensavo di essere sul punto di morire in ogni momento. Ma non sono morto…».
Jack Kerouac - Sulla strada

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