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"Banchi fuori misura": la quinta puntata del romanzo di Antonella Amodio


Venerdì…maggio, I DSA, questi sconosciuti.

In una società pronta a penalizzare il diverso e nel contempo, lo definisce come 'malato'

Venerdì…maggio, I DSA, questi sconosciuti.

Anche allora ci saranno tra i nostri bambini quelli meno adatti all’utilizzo delle tecnologie e noi dovremo mostrare di aver imparato che ogni sistema di circuiti cerebrali attivati ha in sé doni e difetti, che la diversità è ricchezza: lo dobbiamo ai tanti dys, ai tanti Leonardo, Edison, Einstein, che abbiamo martoriato, mentre contribuivano al raggiungimento di conoscenze più alte per tutti

Con una certa riluttanza, feci dunque l’ingresso nel mondo dei DSA, disturbi specifici di apprendimento. La strizzacervelli voleva darmi un'idea della ferita profonda nella stima di sé che questa condizione inevitabilmente comporta e del quadro psicologico che ben presto prende a distinguere un DSA, in fondo è soprattutto di questo che si occupava come volontariato: accompagnare a diagnosi centinaia di bambini e ragazzi e, con loro, i rispettivi genitori.

 ‘Accompagnare a diagnosi è fondamentale. A volte si danno per scontate troppe cose, a volte il personale sanitario dimentica che chi ha di fronte ignora una problematica a loro invece ben nota, di routine, ignora l'immaginario che si ha della diversità, la paura profonda che comporta. La necessità di creare categorie nosografiche, se da un lato tutela, dall'altro stigmatizza. Mi spiego meglio. In una società pronta a penalizzare il diverso, inserirlo in una categoria medica di cui tener conto nella valutazione dei suoi comportamenti, gli da una sorta di lasciapassare ma, nel contempo, lo definisce come 'malato'. L' eccessiva medicalizzazione delle differenze ha i suoi grossi rischi, resi più grandi dalle possibilità di speculazione economica che questo comporta. Ma se la scelta è fra un DSA e l'essere un 'asino', scelgo la prima perché sia data la possibilità di un percorso di studi confacente alle proprie caratteristiche e che consenta di ottenere i risultati desiderati, piuttosto che essere bollati come chi che non vuole saperne dello studio, sino a giungere all'abbandono dello stesso e con esso di tutti i propri sogni. Ma poi si sarà un DSA, qualcuno che ha un 'disturbo', qualcuno che è diverso, che è 'meno', non 'altro'. Questo 'meno' terrorizza ovviamente i genitori e ancor più i diretti interessati. Ecco che accompagnare a diagnosi vuol dire prima di ogni cosa esplicitare cosa sia un DSA, spiegare che è una disabilità come tante: molti non sono abili a nuotare, altri non sanno cantare, alcuni non sono portati per il disegno, altri ancora per la guida come ti dicevo la scorsa seduta, e via discorrendo, alcuni non sono portati per la lettoscrittura, questa abilità per loro non diventa mai automatica, tutto qui. Si dà il caso, però, che intorno ad essa siano girati tutti gli ultimi secoli e quelli, tra i tanti, si ritrovano 'fritti'!

Leggono con le orecchie ma ancora i libri non sono cd, scrivono con il pc ma ancora nella scuola non è di uso comune, hanno bisogno di consultare i dati da elaborare perché non li ritengono a mente ma poi, su quei dati, magari sarebbero capaci di costruire opere di ingegno che quanti quei dati conoscono a memoria, forse non sarebbero in grado di costruire mai. Eppure, prova a spiegarlo a chi fa della propria memoria un baluardo della sua buona volontà e non un'abilità in cui sicuramente è bene esercitarsi, ma in cui non tutti, nonostante l'impegno, possono riuscire in egual misura. E poi, diciamolo, oggi in cui tutto è consultabile in un battibaleno, neanche poi così fondamentale. In un altro passaggio epocale della nostra cultura, quello che vide sostituire la letto-scrittura alla tradizione orale, si ebbero uguali timori. Socrate stesso, temendo che i giovani ateniesi perdessero le loro grandi capacità mnemoniche, ostacolò come poté questo passaggio, decidendo infine di non lasciare alcuna traccia scritta dei suoi dialoghi. Fortuna ha voluto che Platone l’abbia fatto per lui. Con questo non voglio certo finire nell'opposta, ma ugualmente ottusa visione, non c'è meglio o peggio, c'è il diverso, ognuno coltivi al meglio e al massimo le proprie potenzialità senza però pretendere che siano di tutti o, peggio, che siano le migliori di tutte. Che piaccia o no, i dys del domani, saranno tutti quelli che non avranno abilità nell'uso del pc e quelli che lo sono oggi, perché non abili nell'attuale sistema di trasmissione culturale, saranno invece perfettamente integrati in un mondo che utilizzerà sistemi a loro più congeniali. Anche allora ci saranno tra i nostri bambini quelli meno adatti all’utilizzo delle tecnologie e noi dovremo mostrare di aver imparato che ogni sistema di circuiti cerebrali attivati ha in sé doni e difetti, che la diversità è ricchezza: lo dobbiamo ai tanti dys, ai tanti Leonardo, Edison, Einstein, che abbiamo martoriato, mentre contribuivano al raggiungimento di conoscenze più alte per tutti. 

Spesso confondiamo i piani: la causa non è la colpa, l'avere o il fare non sono l'essere, se si possiede o si fa qualcosa, non vuol dire che si è quel qualcosa, sbagliare non è essere sbagliati. I mezzi di trasmissione del sapere non sono il sapere, nelle epoche in cui sono d'uso, sono ad esso necessari e in qualche modo ad esso si sovrappongono, ma, ancora, necessario non è indispensabile e, soprattutto, non è sufficiente. Come sempre la diversità è ricchezza e nuove opportunità, così i dys hanno costretto la scuola ad aprirsi alle nuove tecnologie, quelle che domani diverranno la norma. Io sono discalcula, ho serie difficoltà di orientamento spaziotemporale ecc. ma sono una normolettrice, eppure non vedo l'ora che si diffondano gli audiolibri come alternativa ugualmente presente sul mercato, passo ore in macchina, sai quanti libri poteri leggermi con le orecchie nei miei tanti spostamenti? Ma torniamo a noi. Non essendo diffusa questa visione della diversità, è pratica piuttosto definirla come disturbo, malattia, e i soggetti che in questo secolo sono appartenuti ed appartengono, alla categoria delle difficoltà specifiche di apprendimento, che già come definizione lascia pensare che le loro difficoltà siano nell'apprendere e non nell'utilizzo dei mezzi usati comunemente nella trasmissione dei contenuti dell'apprendimento, hanno avuto la percezione di essere mancanti, deficitari per non dire deficienti.

Quello che ne deriva è la strutturazione di un sé fragile, pronto a sentirsi inadeguato, colpevole.

Già, perché la prima cosa che tutti fanno è ‘colpevolizzare la vittima’: è colpa sua se non è bravo a leggere, è così facile! Tutti i suoi problemi sono colpa sua, perché non si applica, perché non ci mette la giusta attenzione, così per le tabelline che non riesce a memorizzare, o per gli errori di fusione, di doppie, di elisioni, per non parlare di quelli ortografici. La colpa è sua, tutta sua.’

La strizzacervelli stava cercando di dare un  perché alla chiara  fragilità di un io, il mio, che aveva preso ad addossarsi tutte le responsabilità di ciò che non andava, avendo imparato nel tempo che ero io ad essere ‘sbagliato’ accompagnato dalla relativa ansia da prestazione di chi deve continuamente dimostrare prima di tutto a se stesso di essere ‘normale’, dimostrazione che a scapito di qualsivoglia riscontro positivo esterno, non sarebbe potuta arrivare mai a cancellare il convincimento profondo di non esserlo, ormai scritto a fuoco nella mia carne.

 

Venerdì…maggio. Comincia l’analisi dello sprofondo.

Bene, la porta su questa caratteristica di apprendimento era aperta, le mie difese in merito alle difficoltà che avevo incontrato nel mio percorso scolastico si allentarono un po’, potevamo dunque cominciare ad entrare in quella che per anni avevo creduto la mia idiozia da nascondere a tutti, per primo a me stesso. Si cominciò a ballare sul serio. La strizzacervelli prese a fare il suo lavoro, quello che io intendevo fosse il suo lavoro, analisi del profondo. Nei molti venerdì a seguire, utilizzando le tecniche proprie del suo approccio psicoterapeutico, riuscì a trovare, nascosti alla testa ma scritti indelebilmente nel mio corpo, mille eventi dolorosi, ai limiti del traumatico.

Si, a scuola avevo avuto grosse difficoltà, umiliazioni, derisioni, castighi, pareva li avessi cancellati e invece i ricordi tornavano nitidi assieme alle sensazioni fisiche ad essi connesse: sudorazione, respiro affannoso, rossore, brividi, freddo, un freddo che arrivava nell’anima, paralisi da panico, a volte nausea, vomito… I vari episodi mi tornavano alla mente, nitidi, abbaglianti come se li stessi vivendo in quel preciso momento ma assieme a me, su quel lettino, c’era lei. Ad ognuno di questi ricordi, lei riscriveva una nuova positiva risposta. ‘Rimuovere non è cancellare, è solo nascondere alla consapevolezza, ma non sentire non vuol dire non subire le conseguenze di ciò che ci accade. Anzi, finiamo sempre per agire ciò di cui non siamo ormai più consapevoli ma che si agita nel nostro profondo. Possiamo ad esempio godere di uguale simile sorte altrui, semplicemente convinti che sia giusto così, come lo è stato per noi, oppure colludere, finire senza saperlo in quel buco profondo che è dentro di noi, alla semplice vista di quello altrui. Divenire consapevoli delle nostre ferite è l’unico modo per curarle e salutarle per sempre. Il solo modo per evitare di rimettere in piedi di continuo lo stesso copione, sperando in una conclusione diversa che invece diversa non potrà essere mai poiché parte dagli stessi presupposti e ripercorre le medesime strade. Come se non bastasse, la stessa conclusione ripetuta così ogni volta, rafforzerà i nostri convincimenti circa le nostre incapacità, finiremo per considerare inevitabili quei nefasti epiloghi, riconoscendo in essi il nostro ineluttabile destino. A noi scrivere e riscrivere la nostra storia, è così che ognuno è fabbro del proprio destino. Ma sono proprio le nostre ferite che fanno di noi l’individuo unico e inimitabile che ciascun essere umano è. Sono la nostra storia, trasformarle in risorsa per noi e per gli altri è il più alto compito che un essere umano possa compiere.’ Lei ci era riuscita pensai, aveva trasformato il suo penoso trascorso scolastico in un’esperienza che le consentiva di riconoscerlo negli altri per dar loro una mano, per tentare di cambiare un po’ il mondo. Presi ad onorarla come si onora un maestro. Quando glielo disse lei rise, mi disse che un giorno avremmo parlato del riso, della gratuità, del piacere e della reciprocità, lei aveva avuto ottimi maestri a insegnarle tutto questo. 

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