IL MATTINO
Il paese che non deve morire
12.09.2025 - 15:30
Annibale Formica
Tra i paesi delle minoranze arbëreshë, San Paolo Albanese è quello più fragile e insieme più simbolico: con appena 211 abitanti (dati Istat 2025), è il comune meno popoloso della Basilicata. Fondato nel Cinquecento dai profughi albanesi, conserva lingua, rito bizantino e tradizioni che ne fanno un presidio di identità nel cuore del Pollino. Oggi però deve fare i conti con spopolamento, scuole chiuse e servizi insufficienti. Annibale Formica, che del borgo è stato sindaco per 20 anni e direttore del Parco del Pollino, racconta come la comunità abbia resistito finora e quali prospettive possano aprirsi per il futuro.
San Paolo Albanese è uno dei borghi più piccoli della Basilicata. Eppure continua a difendere la sua identità arbëreshe. Qual è la forza che ha permesso a questa comunità di resistere allo spopolamento e al rischio di estinzione culturale?
«Abbiamo resistito nonostante processi profondi di spopolamento e un indebolimento generale, non solo economico ma anche gestionale. La forza è nel valore stesso della tradizione: le radici, il senso di appartenenza, la cultura. Sono elementi che si difendono da soli perché fanno parte del nostro modo di essere. San Paolo e San Costantino sono forse la punta dell’iceberg, ma la stessa energia vive in molte altre comunità che hanno saputo preservare la propria identità».
Il Museo della Cultura Arbëreshe è considerato un presidio fondamentale. Che ruolo concreto ha avuto e può avere oggi nella vita del paese?
«Già dagli anni Settanta ci siamo posti il problema del rischio di scomparsa. La risposta è stata puntare sulla cultura, creando un museo che fosse non solo conservazione, ma anche innovazione continua. È lo strumento che ci consente di trasmettere il patrimonio degli anziani alle generazioni future. Per lunghi anni siamo stati protagonisti di questa esperienza, e il museo resta l’unica linea che ci permette di sopravvivere come comunità».
Da ex direttore del Parco del Pollino, come vede l’integrazione tra tutela ambientale e valorizzazione culturale?
«Noi a San Paolo abbiamo creduto nel Parco fin da quando era solo un’idea. Ci siamo battuti perché nascesse, convinti che natura e cultura fossero inseparabili. Negli anni Sessanta e Settanta dominava una contrapposizione: chi difendeva la natura contro l’uomo e chi spingeva solo sullo sviluppo economico. È stato difficile superarla, ma nel 1993 il Parco del Pollino è nato e ha fatto scuola. La pianificazione integrata era la nostra visione: natura e comunità che interagiscono. Non basta proteggere il pino loricato o l’aquila reale, bisogna salvaguardare anche le minoranze culturali. Intorno al Pollino ci sono undici insediamenti arbëreshë, tra Basilicata e Calabria. Perdere queste comunità significherebbe perdere una parte essenziale della ricchezza del Parco».
Spopolamento, scuole chiuse, carenza di abitazioni. Quali sono i nodi più urgenti e le soluzioni concrete per invertire questa tendenza?
«Se non si produce reddito e occupazione non c’è futuro. È facile a dirsi ma complicato a farsi. Per i piccoli centri bisogna puntare sulla risorsa uomo: capacità di intraprendere, di innovare, di gestire. O investiamo su questo, oppure difficilmente manterremo una situazione già compromessa. E servono servizi adeguati al 2025, non al Novecento: a che serve una corriera che arriva vuota al paese? Bisogna ripensare tutto in funzione delle esigenze reali».
Crede che i giovani, magari emigrati o discendenti, possano tornare a legarsi a San Paolo? Quali progetti o reti immagina per dare al borgo una prospettiva di rinascita?
«È una sfida, ma è possibile. Possiamo lavorare in agricoltura, allevamento, turismo, artigianato. Penso, per esempio, a cammini dedicati alle erbe officinali del Pollino, una risorsa naturale preziosa. San Paolo ha circa 200 residenti, ma migliaia di persone nel mondo conservano un legame forte con il paese. Molti tornano e soffrono nel dover ripartire: questo legame va trasformato in opportunità. Non è solo un problema locale: il modello di sviluppo italiano deve essere ripensato. Le aree interne non possono essere trattate con logiche diverse dalle aree urbane. Serve una visione coerente, capace di dare dignità anche ai borghi. Solo così realtà come San Paolo Albanese potranno avere un futuro».
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