IL MATTINO
Personaggi
14.06.2025 - 15:11
Luciano De Crescenzo più che uno scrittore è stato un personaggio letterario affollato di vite e di incontri, vite e incontri legati alla sua città, Napoli, una Napoli che non esiste più da lungo tempo, per come lui la interpretava, e che rimanendo lui in vita rimaneva intatta e ancorata nel ricordo, di chi quella Napoli l’ha vista e vissuta in prima persona.
Come lui.
Innanzitutto è cambiata l'IBM dei suoi tempi, un'azienda che garantiva il posto fisso e l’opportunità alla città di assorbire laureati e tecnici specializzati che la “Federico II” e gli istituti professionali napoletani producevano, al pari delle altre facoltà e degli altri istituti del paese.
Non esiste più quella città popolare, che invadeva con le sue automobili ogni luogo, compresa Piazza del Plebiscito, negandole la bellezza e l'armonia leggera, né esistono più i portieri filosofi, malgrado i palazzi antichi con le loro guardiole.
Insomma con la sua morte fu decretata la fine assoluta della Napoli anarchica e autosufficiente e quello che rimane è forse una città metropolitana più disumanizzata e meno coesa.
Perché accade ciò?
Perché nessuno più è riuscito a tenere insieme l'anima popolare della città, senza perdere di vista la sua millenaria cultura, come ha fatto lui e senza per forza metterci la targhetta “borghese", come a Napoli si fa per abbellire anche la spazzatura.
Da napoletano autentico, Luciano De Crescenzo è stato uno che ha investito su tutto su ciò che vedeva, sentiva e viveva e che si è affidato, totalmente, all'industria del libro per restituire di Napoli un'immagine stereotipata ma anche surreale. Immagine che ha contribuito, in prima persona, ad alimentare, grazie al suo modo di passare da un genere all'altro con un certo molle scetticismo. Tutte cose che gli hanno permesso di diventare uno scrittore popolarissimo tra chiunque, a prescindere dalle classi sociali.
Ancora oggi tra i remainder si trovano i suoi libri, libri il cui scopo era divulgativo e ludico, benché i suoi libri fossero lontani anni luce dai tomi accademici, tomi da cui venivano rielaborati in chiave novellistica.
Ma oltre a questo era un bravo fotografo e ancora oggi le scene del suo film “Così parlò Bellavista”, vengono considerate un cult al punto da essere oggetto di conversazione filosofico/goliardiche.
Luciano De Crescenzo riusciva a catturare di Napoli la fatiscente esuberante bellezza, su cui si adagiava e come la signora di Giacomo Balla, di "Dinamismo di un cane al guinzaglio", portava a spasso.
Per tutte queste ragioni più che uno scrittore era un gatto sornione disposto a muoversi solo per leggerezza, il bisogno lo aveva già soddisfatto.
Dello scrittore non aveva né l’appartenenza di classe, né i vizi. Si spostava solo in compagnia di chi gli andava a genio ed era perfettamente consapevole di doversi esibire in pubblico solo per accendere la luce, per un attimo, per poi risparire.
E in questo modo discreto ha gestito gli ultimi anni della sua vita, quando la memoria ha iniziato a dargli noia, e fino a quando pure lui non è andato a provare l'ebbrezza dell'ultimo volo in assoluta libertà.
Andrea Camilleri e la poetica del male
Quando un autore muore, per la prima volta è possibile leggerlo senza che il corpo, quello composto di carne e di nervi, faccia d’ostacolo al corpo letterario composto di parole.
Andrea Camilleri è riuscito a fare tutto questo in vita, il suo esserci totalmente nei testi rende la rilettura delle sue opere viva, presente, oggi come ieri.
Non è stato un enfant prodige Andrea Camilleri, al successo è arrivato tardi e per questa ragione non ha conosciuto il suo livello di imbecillità, come amava ripetere. La tenacia di Elvira Sellerio, che di fronte al suo rifiuto di continuare a scrivere del commissario Montalbano, dopo il terzo libro della saga, ha permesso ad Andrea Camilleri di diventare famoso, e gli ha “permesso” anche di applicare, in maniera precisa, una sana e giusta pianificazione editoriale per rendere i suoi libri un bene di consumo, mentre dava un taglio differente al modo di scrivere in italiano e di intendere il giallo in Italia.
Perché Andrea Camilleri era uno scrittore italiano. L'impianto strutturale dei suoi scritti è quello della lingua italiana, lingua italiana su cui poggiare, con elegante disinvoltura il siciliano, alla sua maniera, come diversivo e rafforzativo. Una prova questa, dell'utilizzo del siciliano, di resistenza, lontanissima del provincialismo italiano e dalla sudditanza psicologica del Sud retrivo.
Prima di lui i gialli erano poliziotteschi, la zona di mezzo dove i cattivi operavano era poco esplorata, il finale era netto, cosa che con Andrea Camilleri non accadeva. Accade.
Egli tesseva la sua tela di ragno e in questa tela impigliava tutti, buoni, cattivi, come accade nella vita quando si smette di osservare la realtà senza preconcetti.
Andrea Camilleri, operando in questo modo, ha dato centralità ai sensi, impastandone i personaggi, all'interno di uno schema di scrittura millimetricamente calcolato, schema in cui il lettore viene avvolto e sanato dalla difficoltà di dare forma alle proprie possessioni, non per colpa della morte ma grazie alla morte e al suo attraversamento. Come accade nella vita e prima di lui accadeva solo nella tragedia greca e per rimanere nell'ambito del giallo italiano, in Attilio Veraldi, anche se Attilio Veraldi non dava centralità ai sensi, ma al testo.
E poi Andrea Camilleri aveva alle spalle Manuel Vázquez Montalbán e George Simenon, autori che “usava” abilmente, senza complessi di inferiorità, sapendo di doverli trasportare, con il suo Montalbano, più in là.
Il suo esserci nei testi era evidente anche nelle sceneggiatura, sceneggiature cui partecipava, ogni volta che ve ne era una trasposizione televisiva o cinematografica. Non c’era differenza né sovrapposizione tra testi scritti e filmati, ma solo la conferma della potenza della sua visione del mondo. Un mondo che il male non rendeva più greve ma solo più poeticamente umano, e dove veniva riaffermata la centralità del ruolo degli intellettuali all'interno della società. Una cosa sanissima cui siamo sempre più disabituati e che lui ci ricordava costantemente.
"Alla nascita ti danno il ticket in cui è compreso tutto: la malattia, la giovinezza, la maturità e anche la vecchiaia e la morte. Non puoi rifiutarti di morire perché è compreso nel biglietto. O l'accetti serenamente e te ne fai una ragione o sei un povero “ – diceva e nella cassaforte della casa editrice Sellerio è custodito il manoscritto del suo ultimo Montalbano. Se la morte è compresa nel ticket, solo Andrea Camilleri poteva sapere quale fosse il ticket di Salvo Montalbano. A riprova della grandezza dello scrittore e anche della scrittura come madre traghettatrice. Cosa ben più che chiara per Andrea Camilleri, suo figlio.
I gemelli diversi
La morte assume, quando si tratta di personaggi famosi, sempre più i connotati di una ribaltamento di ciò che in vita è stata la fama, le morti di Andrea Camilleri e di Luciano De Crescenzo lo testimoniano abbondantemente. Erano tutti e due scrittori popolari e grazie a loro milioni di persone, che mai avrebbero letto un libro, guardato un film, per arrivare ad attraversare la vita con maggiore consapevolezza, non sarebbero arrivati a farlo. È questo è un merito che va ad entrambi. Ma se Andrea Camilleri ha vissuto sempre di cultura, “preparandosi” a una seconda vita perennemente sotto i riflettori, da protagonista consapevole, al punto di andarsene in silenzio, non ci sono stati funerali pubblici per sua espressa volontà, Luciano De Crescenzo ha vissuto di fama e di ricchezza senza che gli fosse tributato alcun omaggio dal mondo letterario, mondo letterario che anche grazie ai suoi libri poteva permettersi le pubblicazioni della “Fondazione Valla”, e così i funerali pubblici sono diventati la legittimazione ufficiale della sua famosa esistenza in vita. Il caso ha voluto che morissero a un giorno di distanza e se non fosse stato così, per il diverso modo di farsi accompagnare nell'ultimo viaggio e di vivere, Andrea Camilleri avrebbe ancora una volta surclassato Luciano De Crescenzo. Eppure la differenza tra i due uomini, in termini culturali, è minima. Entrambi hanno fatto da volano all’asfittica produzione letteraria italiana, perennemente in bilico tra libri di qualità, dove la qualità è intesa nei termini di allargamento di orizzonte del lettore, e libri da vendere, cioè libri intesi come beni capaci di generare “dipendenze farmacologiche” e conferme esistenziali, più che graduali cambiamenti. Sono stati tutti e due scrittori “da banco” e tutti e due sono stati testimoni del proprio tempo, in maniera pop e quindi sono fuori da qualsiasi catalogazione, il pop va oltre le categorie estetiche, e perciò è strano che siano stati trattati in maniera così differente dai giornali, non dalla rete o dalla strada, cosa che mette in luce la difficoltà della carta stampata di stare davvero dentro le istanze più vere dei lettori tutti, lettori che acquistano un libro o un giornale solo se sono emotivamente presi e se sentono vicine le storie che gli sono proposte. Così “beatificare” l'uno a discapito dell'altro è sbagliato proprio perché, con buona pace della perenne foglia di fico della cultura e dell'intelligenza all'italiana: esisti perché vendi - a patto che tu sia pure così borghese da essere pop ma non troppo- nessuno dei due era migliore dell'altro. Entrambi volevano la fama e l'applauso attraverso il loro lavoro, ma più di tutto volevano un pubblico che li gratificasse di una vita, tutta protesa verso l'esterno, a rincorrere un riconoscimento di appartenenza intellettuale che li facesse sentire meno pop e più integrati, istanza che è, poi, di tutti gli scrittori. E invece la morte, l’idea che i vivi hanno della morte, li ha divisi ancora una volta, attraverso le pagine dei giornali e la strada, strada che nel caso di Luciano De Crescenzo ha avuto la meglio. In fondo “rappresentare” Napoli e la sua perenne ambizione di rimanere Capitale del regno del Possibile, e quindi anche dell'Antichità, è molto più complesso che riuscire a essere uno scrittore italiano di grande successo.
Il tempo e una lettura un po’ meno borghese e emotiva restituiranno a entrambi la loro giusta dimensione di divulgatori di cultura pop.
E tanto basta.
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