IL MATTINO
21.05.2025 - 20:28
"Potenza, città dell'apparenza". Una frase che si sente sussurrare spesso nelle conversazioni a bassa voce, a basso cabotaggio e nei commenti taglienti tra amici. Non è solo un modo di dire: è un ritratto fedele, spietato e purtroppo condiviso nel quale la superficialità e il vezzo della facciata sono gli unici veri protagonisti in una finzione collettiva. Tutto è scena, nulla è sostanza. Potenza è una città che non è mai stata veramente borghese ma che finge di esserlo da decenni con disperazione crescente. Sotto una patina ammuffita di rispettabilità, il cuore batte ancora secondo i ritmi obsoleti e stanchi del provincialismo duro e puro. Le logiche sono quelle di un paese cresciuto male, troppo in fretta, con la cultura affidata a pochi notabili, senza visione, senza strumenti. Si cerca di sembrare, mai di essere. Il copione è sempre lo stesso: i tuffi a Maratea, la berlina tedesca in leasing da esibire al parcheggio del locale giusto, il panettone griffato da regalare a Natale come segno di un’agiatezza mai davvero conquistata. È una recita continua dove realtà e social network si condensano in una farsa alimentata da una disperata voglia di riscatto sociale che però non passa mai dalla concretezza. Si insegue il lusso senza conoscerlo, si imita il benessere senza capirne il significato, si ostenta per nascondere. La borghesia potentina, quella vera, è morta da tempo. Resta un suo fantasma stanco e decaduto. Le storiche famiglie di professionisti vivono di nome e di aneddoti, incapaci di rinnovarsi, incapaci di incidere. Nessuna autorevolezza, nessuna visione. Solo rendita di posizione e nostalgia di un prestigio sbiadito. La storica imprenditoria locale? Una caricatura di sé stessa. Perlopiù dormiente, asfittica, chiusa in un eterno presente in cui l’unico obiettivo è non perdere ciò che si ha, anche se non produce più nulla. Non si rischia, non si investe, non si costruisce, vietato creare valore aggiunto. Si sopravvive in un’economia da dopolavoro, dove l’innovazione fa paura e il cambiamento è visto come minaccia. L’imprenditoria locale di nuova generazione? Spesso (ma per fortuna non sempre) non nasce da visione ma da amicizie giuste al posto giusto. È una protesi del potere politico, non un’alternativa a esso. Vive di concessioni. Non è autonoma, non è coraggiosa, non è libera. Più che fare impresa, fa presenza. Nel frattempo la maggior parte della popolazione si rifugia nel posto fisso come unica salvezza. Ovunque, purché stabile e vicino casa. Lo stipendio medio diventa il premio massimo e il pranzo della domenica l’apice della settimana, il momento in cui tutto si compie e nulla si mette in discussione. Le tavolate infinite, le stesse battute, gli stessi racconti, le stesse gerarchie. Un rito che rassicura e immobilizza. Un anestetico collettivo, una messa laica in cui si celebra la ripetizione come fosse identità. Il sogno è piccolo e ripiegato su sé stesso. In questo scenario soffocante, il familismo è legge. Le posizioni non si conquistano: si ereditano. Non esistono outsider. Meglio un incapace con il cognome “giusto” che un talento anonimo. La città è un labirinto di nomi che si passano il testimone del potere come una torcia ormai fioca. E l’altro – chi viene da fuori, chi si distingue – è automaticamente un nemico. L'invidia sociale è la valuta corrente. Il fallimento altrui è intrattenimento, è sollievo, è festa. Si brinda non al successo ma all’insuccesso degli altri. Perché chi cade livella il campo. Alleggerisce il peso della mediocrità condivisa. Il pettegolezzo è strumento di controllo, il sarcasmo la forma più usata di autodifesa. Si gareggia verso il basso, ci si consola nel nulla. La cultura è un corpo estraneo. Non interessa, non serve, non porta voti, non fa guadagnare. È tollerata come ornamento, come passatempo per pochi. I centri culturali sono vetrine vuote, eventi creati per autocelebrarsi, non per educare o far crescere. Il sapere è marginale quando non apertamente sbeffeggiato. La classe politica locale è il riflesso perfetto di tutto questo: arida, scollegata, impaurita. Non guida, non progetta, non pensa. È lì per restare, non per fare. E così Potenza resta impantanata nel suo eterno presente. Una città che finge di essere metropoli e si comporta da condominio. Che sogna di apparire europea e si specchia ancora nei bar di provincia. Che pretende rispetto ma non si rispetta. Dove l’intelligenza viene zittita dalla furbizia, la creatività soffocata dalla ripetizione, il coraggio isolato dal conformismo. C'è chi va via, nel più classico nemo profeta in patria. Potenza, città dell’apparenza. Dietro la maschera, il vuoto. Un vuoto che spaventa perché è troppo reale per essere ignorato, ma troppo scomodo per essere affrontato.
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