IL MATTINO
Cinema
24.01.2025 - 15:43
“Diamanti” di Ferzan Özpetek è il film del regista turco, naturalizzato italiano, che verrà proiettato il 23 gennaio, “al cinema Publicis, a pochi passi dall'Arco di Trionfo, in occasione dell'appuntamento "De Rome à Paris", per il secondo Galà du Cinéma Italien. Un’ anteprima assoluta per la Francia.
"Il cinema italiano è di casa a Parigi. È un privilegio portare il cinema italiano a questo pubblico che ci ama, appassionato e curioso, e siamo fieri di cominciare l'anno con questo gala, una festa che è anche l'occasione di promuovere la ricchezza e l'originalità dei nostri autori e delle nostre autrici nel quadro degli incontri professionali De Rome à Paris", ha sottolineato Roberto Stabile, ideatore e responsabile di Italian Screens, il programma di promozione del cinema italiano all'estero, sostenuto dai ministeri degli Esteri e della Cultura”
Un risultato ragguardevole se si tiene conto del fatto che i film hanno vita breve nei cinema e anche la prova che poi a cinema gli spettatori (e anche i Festival) amano i film ben scritti (il più grosso problema del cinema italiano sono le sceneggiature, non è il caso di Özpetek, che in “Diamanti” si è occupato non solo della regia del film ma anche della sceneggiatura, insieme a Carlotta Corradi ed Elisa Casseri) ben girati e ben recitati, tutte cose che in “Diamanti” ci sono, e poi c’è da aggiungere anche dell'altro, e cioè che i film di Özpetek sono uno spaccato piuttosto veritiero della vita di ognuno di noi, perché narrano l’ordinario senza ridurne la bellezza e senza indugiare sul malessere, perché il “coro greco” nei suoi film diventa tessuto umano, capace di supportare e di accogliere chiunque, senza badare alle differenze sociali e sessuali e senza badare alle difficoltà.
Una lezione la sua che il pubblico ha fatto propria, nel senso dell’accoglimento e della comprensione di queste istanze, tanto che gli spettatori in sala fiduciosi e sereni seguono la storia che nel caso di “Diamanti” è quella delle sorelle Canova, la decisionista Alberta, interpretata da una Luisa Ranieri di ferro, tiratissima, e dalla più pacifica e sofferente Gabriella, a causa della morte prematura della figlia, Jasmine Trinca, proprietarie di una sartoria di costumi teatrali, che riporta alla sartoria Tirelli, alla percezione che Özpetek ne ha, sartoria quella di Umberto Tirelli in cui sono stati confezionati i costumi per i registi più celebrati del cinema.
Ed infatti la bellezza dei tessuti, il gioco dei bottoni, dei drappeggi, delle canutiglie, dei jais riempie totalmente la scena, infondendo calore e determinatezza anche alle attrici, diciotto, che si muovono in maniera armonica e composta.
Il film è una rappresentazione teatrale, con i tempi perfetti del cinema di qualità. La trama è quella dei sentimenti, vivi, che accompagnano e salvano l'esistenza, a chi al cuore e alla ragione dà valore, alla maniera di Jane Austen, un terreno su cui il nostro si muove benissimo.
E tutta questa bellezza protegge anche lo spettatore, amplificandone lo sguardo e infatti si esce dal cinema pacificati, soprattutto perché in fondo un film dovrebbe essere un’abile orchestrazione, in cui sia dato ad ognuno la possibilità di perdersi.
Gli uomini sono sparuti e fanno da cornice sbagliata a donne volitive ed autonome, che attraverso la realizzazione del sogno di un abito divino, scandagliano la loro vita con maggiore consapevolezza.
Ci sono gli amori sbagliati e quelli interrotti in questo film, amori a cui Mina offre un prezioso brano inedito come filo conduttore, come Giorgia, che non è calda quanto Mina ma che per magia Özpetek riesce a riempire e a riscaldare attraverso le sue scene, dà il passo e la chiusa al filmm attraverso la colonna sonora.
Nel mentre, il regista appare e scompare, creando una dimensione del film tridimensionale e ancora più vera, con le attrici che passano dalla lettura della parte, all’interpretazione della parte stessa con assoluta trasparenza.
Non ce ne è nessuna che non brilli di luce propria e che si sottragga a questa messa in scena della sorellanza, anche se Mara Venier riesce a stupire perché più che mettersi sotto i riflettori “sceglie” di spegnerli regalando al pubblico, grazie a Özpetek, un prezioso e privatissimo ritratto di donna, sicura ed accogliente, senza che debba indugiare sulla sua autorappresentazione onnipresente, a favore del pubblico televisivo, che comunque è venuto anche a cinema per seguirla.
E poi c’è Elena Sofia Ricci che non potendo partecipare al film, le ragioni le scoprirete vedendolo, viene premiata nel finale, a riprova che il cuore serve sempre, a cinema di più, come Ferzan Özpetek ci ha insegnato benissimo visto che questo è il suo quindicesimo film di successo e di sentimento.
Che paure ha Ferzan Özpetek?
Quella di perdere il controllo. La droga, ad esempio. Sapevo che mi sarebbero piaciute e me ne sono tenuto alla larga. Ai miei tempi comunque la cocaina era un abisso destinato ai ricchi. Girava qualche canna, molto alcool e per rimorchiare non avevamo bisogno di strafarci. Ci bastava essere sicuri di noi stessi.
È vero che il suo è un microcosmo pieno di ingrati?
Verissimo, gli attori in particolare, come è ovvio. Tra loro ho anche carissimi amici: Francesca D’Aloia, Margherita Buy, Kasia Smutniak. In generale non scelgo mai le mie frequentazioni in base al mestiere di chi si siede a tavola con me.
E lei a qualcuno è grato? Ai suoi produttori di ieri e di oggi? A Tilde Corsi, a Domenico Procacci?
A Domenico voglio bene anche se, visti gli incassi, dovrebbe essermi grato lui. (Ride). So riconoscere chi mi ha aiutato e in assoluto non porto rancore.
Neanche nei confronti di chi la critica?
Ho avuto apologeti e detrattori, ma non ho mai fatto una telefonata a chi mi criticava. Una volta, dopo la proiezione de Le fate ignoranti mi si accostò un giornalista. Aveva stroncato il film e schiumava rabbia: “Bello il vostro mondo gay, vi divertite tanto eh?”. Risposi a tono: “Caro mio, se il mondo in cui uno muore di Aids, un’altra arranca tra le casse di un supermercato e un altro ancora non sa cosa fare delle propria vita ti sembra bello, il tuo deve essere atroce”. Due mesi dopo, con le sale piene, lo stesso giornalista scrisse un pezzo colmo di elogi sul film. Lo incontrai a una prima e mi avvicinai: “Ma hai cambiato idea?” e lui: “Lascia perdere Ferzan, la mia ragazza è pazza del film e mi ha rotto i coglioni per parlarne bene fino allo sfinimento”. Fu simpatico. Sincero.
È una dote che apprezza?
Molto. La sincerità è quasi catartica. Cambia i rapporti tra le persone. Una volta, molti anni fa, lavoravo come aiuto regista per Sergio Citti in “Mortacci”. Giravo di notte, facevo colazioni meravigliose alle sei di mattino ai Mercati Generali e badavo a nove cani abbandonati che avevo sistemato alla meno peggio sulla terrazza condominiale. Una vita faticosa. Un piccolo inferno. In quell’inferno, mi capitò di dover ascoltare anche le assurde pretese di uno degli attori del film, il grande Malcom McDowell. Era insopportabile e rompeva i coglioni per ogni singola minuzia. Mi esasperò e finalmente gli spiegai che mi aveva stancato e non ce la facevo più.
Da l'intervista di Malcom Pagani a Ferzan Özpetek per Il Fatto quotidiano, 2015
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