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Iddu nudo e crudo

Iddu nudo e crudo

È passato poco tempo dalla morte di M.M.D e Il mistero che avvolge tutta una vita, trascorsa in latitanza a consolidare potere e omertà, non è stato ancora indagato e scoperto fino in fondo, per questa ragione un film, “Iddu”, che cerca di comprendere, mappare e scalfire l'immagine di uno dei più vuoti e feroci criminali italiani, può sembrare prematuro.
Il film è stato presentato a Venezia81 dove ha ottenuto il Premio “Carlo Lizzani”, ed è da alcuni giorni nelle sale cinematografiche italiane.
Le polemiche, i distinguo, le perplessità lo tallonano, ma a cinema il pubblico, numeroso, che non fa volare una mosca e rimane in sala a leggere i titoli di coda, e ad ascoltare la canzone che lo chiude e lo contiene: “La malvagità” , scritta da Lorenzo Urciullo, noto come Colapesce, divenuto single e non più in coppia con Di Martino, e che ha vinto il “Soundtrack Star Award 2024”, a Venezia, come migliore colonna sonora, sembra apprezzarlo e molto.
Iddu è proprio la storia della malvagità, come ci narra il testo della colonna sonora, parola per parola, della sua stupidità e del suo essere lasciapassare per collegare qualsiasi mondo. È la storia di un disastro esistenziale, di una solitudine senza pari, dell’urgenza di uccidere per essere riconosciuti e per avere un'identità ben definita, tali da giustificare un’appartenenza e una comunanza, che non è mai umana, ma che è invece sovrastruttura sociale. È la storia della famiglia, un luogo di costrizione e di rapporti disumani, che si sviluppano con drammatica crudeltà, tra le quattro mura di casa e che seguono le regole dell’obbedienza cieca e acritica. Quella che disconosce l'individuo e la sua diversità, e che è poi la miccia per fare esplodere ogni cosa, dentro e fuori della prigione, a tratti dorata, che la famiglia sembra essere. Nelle quattro mura blindate si riceve gente, si ascolta, si stringono patti e si scrivono lettere, che, come quando a scuola si vuole copiare, sono ridotte a messaggio, a pizzino.
Ed è proprio il pizzino che diventa il simbolo e l'emblema di questo mondo fatto di suppliche, di riconoscimenti tardivi, di intrallazzi e di appigli per non arrendersi alla nullità, non solo del proprio percorso di vita, ma anche di quello della collettività, in una sorta di vortice che si chiama: “correità”.
Il pizzino testimonia l’appartenenza vera e la capacità di utilizzare la scrittura con intelletto, perché è attraverso il pizzino che ogni cosa si muove. E su questo mezzo, sulla padronanza del suo utilizzo, che si costruisce la narrazione filmica e la potenza della stessa malvagità, la sua seduzione e la sua ragione d’esistere. Chi scrive sa pensare, ancora di più se deve comandare, e anche se nel film la presenza di una donna segretaria, interpretata magistralmente da Barbara Bobulova, farebbe credere ad un depotenziamento di Iddu, in realtà è un modo per inquadrato meglio, e per non fare passare le donne solo come "oggetti" per svagarsi e divertirsi. Di contro abbiamo Antonia Truppo, la sorella di Iddu (quella che ha il vero piglio criminale, ma che non è nata maschio e per questa ragione non può diventare capo) che si muove con ragionata ferocia, tenendo testa a chiunque.
Sullo sfondo ci sono degrado e periferie, abusivismo e distruzione, il malaffare come cifra stilistica e come conseguenza del consumismo.Tutto serve a sedare il nichilismo, trasversale, e consente di fare saltare ogni barriera e ogni inesistente differenza di classe, di morale, perché se la qualità della vita passa attraverso il possesso del danaro, dei beni e delle persone, che grazie a ciò diventano disponibili, nemmeno si arriva a percepire un altro mondo più giusto.
Il film ce lo racconta con lucida dolenza, senza essere un documento di cronaca ma usando la cronaca come pretesto per narrare una storia, in maniera così potente da essere devastante.
Fabio Grassadonia e Antonio Piazza conoscono benissimo ciò che maneggiano, sanno fare cinema, infatti l'opera procede in maniera spedita, a parte qualche leggera sbavatura, ma un film di due ore e due minuti può pure permettersi il lusso di uscire un po' dai binari. E poi si avvalgono di un cast di bravi attori e pure di due come Toni Servillo ed Elio Germano, che si fronteggiano in una "sfida", che molto ricorda la sfida De Niro/Pacino in “Heat” di Michael Mann, e lo fanno con una determinazione e una dedizione sfrenate, mentre per quanto riguarda la composizione della storia siamo nel campo dell’impegno civile, alla maniera di Elio Petri e di “A ciascuno il suo”, e del suo essere cronaca, fantasia, nel senso di libera rielaborazione letteraria, del libro di Leonardo Sciascia, al servizio del cinema come è nel caso di questo film.
Il ritratto che ne esce fuori del nostro Paese, ma del mondo perché questo non è un film di parte, è sconsolante, ma veritiero, perché le periferie sono uguali dappertutto, così il crimine, che può essere seducente solo fino a quando non lo si deve guardare in faccia come racconta lo stesso Antonio Piazza a “La Repubblica”.
«Ho lasciato Palermo nel 1996. È stata una fuga. Ho dapprima reagito a quegli anni con grande passione politica, vissuto la primavera di Palermo, la Pantera studentesca. Facevo il giornalista, ma sapevo che non era il mio punto d’arrivo. A Torino con Fabio abbiamo capito che volevamo indirizzare la nostra rabbia civile verso un percorso creativo».
Il suo primo ricordo di mafia?
«Due eventi hanno cambiato il mio modo di guardare alla realtà intorno a me. Quand’ero piccolo mio padre era un piccolo imprenditore edile onesto, nella Sicilia degli anni Settanta e Ottanta non era facile. A casa arrivava l’eco di episodi che subiva: cantieri boicottati, piccoli furti, incendi. Poi le cose si sono fatte più serie, hanno iniziato a minacciare di sequestro mia sorella, che non usciva più da sola. In casa vivevamo un’atmosfera di grande tensione, al culmine della quale mio padre decise un gesto all’epoca inconsueto, cioè andare alla polizia e denunciare. Quando è tornato a casa, i mafiosi già sapevano tutto. Ha aperto la porta e già squillava il telefono, ha ricevuto pesanti minacce. Poi hanno messo una bomba alla casa dei miei genitori a Termini Imerese, che è andata parzialmente distrutta. Oggi mio padre non c’è più, noi ci occupiamo della ristrutturazione e sono riemersi i segni di quell’incendio. Queste cose ti cambiano. O decidi di fare finta di niente, oppure apri gli occhi e guardi il mondo in modo diverso».
E lui, loro, lo hanno fatto
A parte la colonna sonora, c’è Patsy Kensit con "I'm not Scared", scritta dai Pet Shop Boys, usata nei momenti in cui Iddu si esalta e si spegne, in pratica la canzone fa da vettore emotivo e stimolatore.
Di M.M.D il film mette in luce tutto, e sempre lo immagina come un pupo, un bambino, per via della statuetta di un pupo che gli viene tramandata come segno di comando. In pratica MMD è un fantoccio, tanto che i registi lo pongono nella teca vestito con il montone di Cucinelli, il berretto in cashmere, per come si era preparato e rappresentato al momento dell'arresto, cioè bello e buono, come una statuetta preziosa. È altamente improbabile che potesse davvero essere uguale ad un reperto archeologico dal valore inestimabile, che comunque gli avevano sottratto, ma il suo bisogno di apparire perfetto, così da potere essere iconizzato, rivela tutta la sua stucchevole insipienza, ma anche le modalità del mondo in cui viviamo, che è racchiusa nella domanda che Servillo fa a suo genero, una domanda che poi è retorica perché è una constatazione ma anche la ragione inoppugnabile della stessa malvagità .
«Gli ideali e i valori umani hanno un carattere illusorio, compensativo, questo il tempo e l'esperienza non te l'hanno insegnato?»

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