IL MATTINO
Costume e società
04.10.2024 - 09:11
«Al mio funerale venga chiunque, ma non vicini di casa e parenti» [ con l'esclusione di mia sorella che in questi anni di] «lunga ed estenuante malattia», [mi ha] «amorevolmente accudito, fino agli ultimi istanti di vita».
È questo l'estratto di un manifesto funebre comparso qualche giorno fa a Villasanta, un comune della Brianza, manifesto redatto dalla sorella della signora defunta per sua espressa volontà.
In pratica la signora ha messo a frutto ciò che scriveva John Steinbeck ne “La valle dell'Eden” e cioè: «Se tu o io dobbiamo scegliere tra il pensiero e l’azione, dovremmo ricordare la nostra morte per provare così a vivere in modo che la nostra morte non porti soddisfazione al mondo».
Una riflessione che ci appartiene, visto che la letteratura l'ha già messa a fuoco per noi, e che appartiene anche alla società in cui viviamo, perennemente in affanno e in corto circuito, a causa di manie e psicosi di ogni genere, ma che messa così, sulle mura imbiancate di un piccolo paese, fa rumore.
Ed infatti il manifesto ha incuriosito non solo i cittadini del luogo, ma è arrivato ad essere pubblicato da tutti i giornali, senza distinzioni territoriali.
I giornali che siano a carattere nazionale o a carattere regionale hanno comunque l’esigenza di narrare delle microstorie quotidiane, quelle che non solo interessano la gran parte dei lettori, ma che danno il polso dei cambiamenti sociali e del costume in un Paese, che per quanto riguarda questo campo, quello delle comunicazioni di dipartita, è sempre stato abbastanza sobrio.
La presa visione delle pubbliche affissioni che riguardano i defunti e la lettura dei necrologi sono una pratica diffusa, per quanto le pubbliche affissioni oggi siano ancora molto diffuse nei piccoli comuni. Nelle città, visto anche il costo dei servizi funebri, si tende a sorvolare, o forse semplicemente negli spazi più ampi e ad alta densità abitativa conta molto di più sbarcare il lunario, che afferrare il passaggio della morte altrui.
Ursula Hirschmann, sorella dell’economista Albert, e moglie prima di Eugenio Colorni e poi di Altiero Spinelli, in “Noi senzapatria”, la sua autobiografia, edita da Il Mulino, narra della sua vita da esule e da protagonista della nostra storia sociale e politica, a partire dalla nascita e dall'avvento del nazismo, ma si sofferma anche su alcune abitudini, che avevo appreso venendo a vivere con Eugenio Colorni in Italia.
Tra queste c'era proprio l’abitudine di leggere la pagina dei necrologi sul giornale, spesso prima delle altre pagine.
Una cosa che all'inizio le era sembrata assurda e a cui nel tempo si era abituata.
Semplicemente perché i necrologi danno (o forse davano, ancora di più, un tempo) la misura del ruolo del defunto, nella società in cui aveva vissuto, evidenziandone l'umanità ma anche i rapporti di potere.
Insomma il manifesto affisso sui muri dei luoghi in cui si è vissuti, e il necrologio sulle pagine dei giornali, erano/ sono il biglietto da visita per l’al di là, il bignamino che a nessuno era/è negato, e per questa ragione rappresentava/rappresenta il vestito buono del defunto, che per chi partecipava ai funerali doveva/deve essere sobrio e possibilmente scuro, come i manifesti e i necrologi stessi.
Questo manifesto di Villasanta invece ci racconta altro.
Innanzitutto ci racconta dell’ostinazione della defunta di chiudere la sua partita con la vita in maniera netta, polemica, disattendendo pure ai desiderata della morale cattolica, che vede nella morte la possibilità di una vita migliore, mondata dai peccati e dai risentimenti. Con questa scelta in pratica il senso del funerale stesso, celebrato comunque in chiesa, decade, visto che ci narra di una solitudine esistenziale da portare nella tomba, alla vista di quell'unico rapporto familiare messo in salvo, rapporto anche esso chiuso tra le mura, quelle domestiche, e che non ne comprende altri, nemmeno quelli con gli esseri umani che pure condividevano con lei mura e fondamenta, minati dall'incomunicabilità.
La signora ha deciso così di uscire dallo standard, e anche di rendere superata la regola sociale che considera i funerali come gli unici eventi, in forma privata, a cui non serva essere invitati. E perciò accanto al suo nome e cognome, alla data di nascita e di morte, al luogo, al giorno e all’orario della cerimonia, ha posto come veto proprio quello sociale, negando la partecipazione alle sue esequie dei conoscenti, cosentendola solo a chi ha tenuto a fare espressamente specificare nel manifesto, negandosi qualsiasi possibilità di conciliazione post mortem .
Ma questo, che ha il gusto del puntiglio eterno, ci serve nel momento in cui andiamo via e per sempre dal mondo?
Forse no, se vivere vuol dire prepararsi alla morte, alla sua solitudine e alla dimenticanza.
Il manifesto però più che una dimostrazione di tigna nei confronti degli altri e del mondo, e di una negazione della visione religiosa della morte, è la dimostrazione, al contrario, di un attaccamento alla vita. Esercitato nella maniera più umorale possibile, e cioè attraverso le discussioni, le piccole beghe, i rancori incistati, che nel tempo sono diventati distanza, esclusione, mancanza di condivisione ed estrema solitudine.
Tutte cose che attraverso questo manifesto la signora si illudeva, erroneamente, di ribaltare in modo personale e a suo favore, come una vendetta postuma.
Oggi con l’avvento dei social e di una dimensione sempre meno privata del proprio percorso esistenziale, si arriva ad accumulare molto chiasso e molto risentimento, al punto di volerlo teatralizzare fin dentro la bara, per riaffermare una volontà (mai stata consapevole fin qui) che è al di sopra, non solo delle leggi costituite ma pure delle stesse leggi dell’oltretomba.
È possibile, che da questo momento in poi, questo modo di presentarsi al cospetto della morte si diffonda a macchia d'olio, visto che oggi narrazioni di ogni genere ci stupiscono, talvolta sfiancandoci, perché oggi non è il : “Cogito, ergo sum”( penso, dunque sono) di Cartesio a determinare le azioni ma il: “Copio e incollo, lo faccio passare per mio, al punto di stravolgere e rimodulare ogni cosa, ma con una determinazione che porterò fino alla tomba"
Ci serve?
Forse no ma sempre John Steinbeck questa volta con “On the road” ci viene in aiuto, e ci ricorda che la vita è una continua prova generale della morte, al punto da illuderci che pure nell’aldilà, l’ultima parola, sarà sempre la nostra, come se non fossimo morti.
Come è accaduto alla signora di Villasanta.
«Ho realizzato di essere morto e poi rinato un gran numero di volte, ma non potevo ricordarlo solo perché i passaggi dalla vita alla morte e poi di nuovo alla vita sono così impercettibili, un’azione magica per un non nulla, come addormentarsi e svegliarsi di nuovo un milione di volte, l’assoluta casualità e ignoranza di quel che succede. Ho realizzato che è solo per la stabilità dell’Anima che questi frammenti di nascita e morte possono avvenire, come l’azione del vento su un puro, placido, immobile specchio d’acqua. Ho sentito la dolce, eccitante beatitudine, come una gran botta di eroina direttamente in vena; come un sorso di vino nel tardo pomeriggio che ti fa sussultare; i miei piedi formicolavano. Pensavo di essere sul punto di morire in ogni momento. Ma non sono morto…»
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