IL MATTINO
Intervista
20.01.2024 - 15:45
Massimiliano Rossi è un attore professionista, e cioè un attore che ha fatto una lunga gavetta che lo ha forgiato e costruito così da essere diventati la recitazione, la regia, e la scrittura il suo mondo, un mondo vastissimo, nel quale si muove con disincanto, con consapevolezza e con gioia e che attraversa con la tensione fisica, frutto del lavoro che quotidianamente fa su stesso, e che si vede in ogni suo gesto volto a dare un senso al tempo. Un'abitudine quest’ultima che è degli attori di teatro, quelli che da sempre fanno girare le nostre vite, anche quando a teatro non andiamo, e rimaniamo, in maniera inconsapevole, ancorati al nostro quotidiano, che è comunque un palcoscenico, talvolta naturale, molto spesso artefatto. L'intervista con Massimiliano Rossi si è svolta in uno spazio metafisico, un luogo a lui familiare che gli ha permesso di muoversi e di potere gestire il corpo, ha alle spalle anche una scuola di mimo, lo sguardo, in assoluta libertà, insomma è stata questa intervista un’abilissima rappresentazione teatrale, cui sono stata invitata a prendere parte, una cosa di cui lo ringrazio, anche perché è una persona che vive con rigore il proprio lavoro, e che lontano dalle luci della ribalta ridefinisce i suoi spazi, come sempre dovrebbe essere per chiunque, non solo per un attore, ma che oggi accade raramente, e per questa ragione l'intervista parte così.
È praticamente assente dai social e non ci sono tracce del suo privato, un fatto inusuale per chi fa il suo mestiere, perché questa scelta?
«È una questione naturale per me non entrare nei circuiti pubblici, una necessità, un modo per potere recuperare tempo ed energie e per potere continuare a lavorare con serenità».
Ha iniziato presto a recitare, la sua è una vocazione?
«Non ho talento, nel senso che non ho mai pensato di potere fare altro se non recitare, ho imparato a fingere, per quanto fingere possa essere usato come verbo appropriato in relazione al mio mestiere, una necessità che mi ha portato fin qui».
Che mondo è quello in cui si muove per lavoro?
«È un mondo sano. Gli attori sono brave persone che lavorano moltissimo, e che vanno incontro anche alle intemperie senza curarsene. È una vita totalizzante, nella quale ci si immerge non tanto per necessità ma proprio perché è la nostra, e questo azzera tanto altro, quell’altro che poi trasferiamo nelle parti che ci tocca recitare per mestiere».
Entra ed esce dal cinema e dal teatro con destrezza, in cosa differiscono i due ambiti?
«È una differenza di percezione. Prendiamo l'amore, un sentimento universale, e il modo di rappresentarlo. A cinema la rappresentazione è immediata, non serve nemmeno modulare la voce in maniera differente, ci sono microfoni e filtri di ogni genere, e il tono della voce può rimanere naturalmente basso, come se davvero la manifestazione di un sentimento e la sua dichiarazione si palesasse tra mura ovattata. Il teatro è invece tridimensionale, rompe la barriera del suono, e per un attore a quel punto diventa una questione ginnica. A teatro l'inganno è tacito, un aereo di carta può tranquillamente essere reale, a cinema no, la realtà, anche degli oggetti, la loro materialità è parte dell’incantesimo, è il suo grande inganno, la sua giocosa seduzione».
E poi?
«E poi c’è il fattore economico e cioè si fa cinema con innanzitutto un budget, nel cinema la capacità di amministrare denaro in funzione dei sentimenti e del pubblico è primaria, e questo talvolta produce un eccesso di programmazione a discapito della programmazione stessa, che poi allontana le persone dalle sale, ma è un fatto ciclico, non tanto una peculiarità del tempo in cui viviamo».
Come si risolve tutto questo?
«Continuando a recitare, dando priorità alla forza narrativa propria del nostro mestiere, e anche all’altezza morale dei personaggi che si incontrano. Il bello della recitazione è proprio questa: la capacità di dare, alle scelte di vita dei personaggi, una forza morale tale da incollare lo spettatore alla poltrona del cinema, del teatro, di casa. Il luogo, a quel punto, diventa scarsamente importante».
Ama rivedersi?
«Non mi rivedo, solo se sono costretto lo faccio. Trovo non abbia senso farlo. Nella vita non esiste il fermo immagine, se non attraverso il ragionamento ma nel frattempo siamo altrove, e questo vale anche per la recitazione».
Cosa fa quando non lavora?
«Leggo, studio, passeggio con il cane, cose normalissime necessarie per ricaricarmi, frequento i miei amici, ne ho tanti anche se sono un misantropo».
Cosa altro?
«Vivo viaggiando, spostandomi in continuazione attraverso i mezzi pubblici. Sono a favore delle infrastrutture ma poi nei fatti mi accorgo di esserne succube perché sono indolente, nel senso che rallentano ogni mio spostamento, ma rimanere bloccato in mezzo al traffico e al frastuono mi risulta difficile, e pure quando potrei usufruire delle auto, che mi vengono messe a disposizione delle produzioni per lavoro, preferisco usare la metropolitana per spostarmi».
Cos’è per lei il viaggio?
«Il viaggio per me è tutto, è il mondo, un mondo in cui ti muovi come accade in scena, perché è la finzione a dominare il tempo e lo spazio».
Che altra abilità ha, a parte il senso del tempo grazie alla recitazione?
«Sono un collettore, per le cose positive, mi piace fare da ponte, mi piace fare riuscire a incontrare gli altri, fare da mediatore».
Le piace cucinare?
«Ogni tanto, in compagnia, uno spaghetto, un bicchiere vino. Occupiamo troppo tempo per il cibo, anche per l'alcool, cose che ci appesantiscono riducendo il tempo e lo spazio per noi. Sono diventati una forzatura che non sopporto».
In cosa è cambiata la sua percezione della realtà durante questo suo lungo percorso lavorativo?
«Più invecchio e più mi piace l’alba rispetto al tramonto».
edizione digitale
Il Mattino di foggia