IL MATTINO
I Pensieri dell'Altrove
17.06.2018 - 08:33
Alle 18,30 arrivo in libreria. Fa freddo, un freddo che fa sentire i piedi a disagio nei sandali leggeri, anche perché piove. Ma io, che il freddo lo sento addosso sempre, sono partita da casa in tenuta semi autunnale, quindi sono a posto. La saletta della libreria è vuota, le sedie rosse sono ordinate, i miei libri sono disposti in maniera composta su di una scrivania, altre quattro sedie sono sistemate su un palchetto sobrio, semplice, come piace a me. Sto bene, immagino e mi chiedo chi verrà a farmi il regalo di essere qui per me, per i miei scritti, per la mia parola. La parola. Non ho mai avuto difficoltà nel credere fermamente nella potenza della parola, nella sua possibilità di stendersi con dolcezza in una forma di consolazione, nella forza di una terapia, di una persuasione, di un antidoto alla solitudine. La parola come l’espressione più immediata della conoscenza e della comunicazione fra gli uomini, il tentativo spontaneo di dichiararsi e di manifestarsi al mondo. Usare le parole per farsi capire, accettare, per farsi amare. O detestare. Quando negli angoli di un pensiero sofferto e sofferente si produce la tossicità del malessere o del dispiacere andiamo ad alimentare la frustrazione, quando nei nostri momenti acuti di combattimenti emotivi si è vittime di sentimenti turbolenti come la rabbia, anche la parola e la sua sostanza cambiano radicalmente. Diventano fatti nodosi, si consolidano vecchi rancori mai definiti, si coinvolgono domande mai risolte, si sfaldano patti di alleanze, si trasferiscono molecole ribelli dalla pancia al cuore, dal cuore alla testa. E le parole feriscono, colpiscono, abbattono. Uccidono. La potenza di un suono articolato che diventa un’arma cattiva, devastante, un danno inguaribile. Poi saranno il tempo e la saggezza, altre parole nuove e convincenti, altri fatti riparatori e necessari a riequilibrare lo strappo. Poi sarà la nostra intima possibilità di sopportazione a firmare la tregua.
- Sono le 19,00. Arrivano i primi amici. Quelli che aspettavo e quelli che non mi sarei mai aspettata. Per me è una festa dell’anima. Un abbraccio corale intenso, vero, senza nessuna forzatura, senza accenni a comportamenti di maniera. E la parola scritta prende vita. Diventa ricordo, commozione, ironia, condivisione. Si sporge nel profondo, nella introspezione, nel sentire comune di ognuno di noi. Perché siamo tutti così diversi eppure tutti talmente simili da poterci, appunto, definire fratelli. Perché le parole mie sono solo delle figure che si spostano da una lettura all’altra, sono modesti veicoli che trasportano con fatica i sentimenti di tutti i giorni, sono il mio bisogno di sentirmi parte operativa del mondo. E sono abbracci, nei quali da sempre ripongo la fiducia e la certezza del contatto buono, della vicinanza e della fratellanza. Della comunicazione dei corpi e della solidarietà più immediata e più fisica, in un cerchio chiuso che diventa, per un momento, un microcosmo privato di tenerezza. E di sano stupore per le nostre cellule emotive, disabituate alla cura e allo sguardo di una carezza. Dimenticate spesso in una comoda superficialità o in un dubbio cronico fra una sana elargizione di affetto e una restrizione falsamente protettiva. Abbracci e parole: la dimensione della certezza di una visibilità sentimentale, di una accettazione o semplicemente un modo efficace e coraggioso per riconoscersi, coerentemente, umano fra gli umani.
P.s. Un grazie particolare ad Antonio Blasotta, amico e testimone della mia parola. Ad Antonella Caruso, che sta facendo con me i viaggi intelligenti nella sfera magica del mondo delle parole e a Roberta, che prima mi ha spinta e poi accompagnata in questa nuova raccolta dei miei pensieri .
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