IL MATTINO
I pensieri dell'altrove
04.03.2018 - 10:49
Passare dal sonno alla morte è quella soluzione finale ed estrema che probabilmente si augura la maggior parte di noi mortali. La comprensione della fine risulterebbe automatica e inconsapevole, quindi una forma di morte ignorante che farebbe meno paura e avrebbe, per chi resta, un numero minore di ultimi ricordi dolorosi. Morire mentre si dorme è quasi poetico, lascia una sospensione fisiologicamente dolce, sembra un “continuum” biologico fra il piccolo sonno ed il riposo eterno. In una scala di preferenze che però restano solo ipotetiche, penso che un congedo così morbido goda di molti estimatori. Importante e comprensibile resta, possibilmente, un’ultima condizione: che l’esito avvenga il più tardi possibile. Nel sonno non si soffre, o almeno così ci fa comodo pensare. Pensavo, quindi, che se dei colpi di pistola uccidono due bambine mentre alle sei del mattino stanno ancora dormendo, forse non se ne sono accorte, che stavano morendo. Se poi ad impugnare l’arma è il papà delle bambine, mi voglio convincere che tutto l’orrendo crimine sia avvenuto senza che gli occhi si siano aperti anche solo per un secondo, che il freddo di queste notti abbia aiutato il sonno ad allungarsi al caldo delle coperte nei lettini, che il papà assassino sia entrato piano, senza fare rumore, senza averle spaventate in quel folle attimo prima di premere il grilletto e uccidere. Lui, il padre, non ce lo potrà spiegare, perché dopo ore di trattative inutili e disperate, poi si è tolto la vita. In una difesa di ruolo raccapricciante, avrà pensato che dopo aver ferito la moglie, ucciso le bambine, la sua vita irrisolta e devastata aveva raggiunto l’ultimo stadio del male poiché tutto il disegno omicida, programmato da tempo, ora si era compiuto. Chissà se quest’uomo si sia ucciso per un momento di restante lucidità di fronte alla strage ancora calda o per un processo di dannazione soffocante che porta, a quel punto, in una sola direzione. Io non vorrei neppure saperlo, la sua decisione mi appare secondaria rispetto alla volontà criminale e disumana di sparare alle sue bambine, di essere stato per otto, nove ore con i piccoli corpi inermi e di aver resistito così tanto tempo in una situazione oggettivamente agghiacciante. Non c’è nessuna speranza in questa storia, se non quella di cercare con molta fede e con ragionevole cautela, in un progetto di riabilitazione alla vita, la forza di volontà da parte della madre a voler sopravvivere. I territori del dolore sono immensi, sono tendenzialmente sempre più numerosi ed abitati, sono disponibili a contaminazioni sofisticate con l’odio, la vendetta, la prevaricazione, il narcisismo deviante. Sono territori vicini ai nostri corpi, non controllati, perché invadono come neutrini affamati la nostra pelle, il nostro cuore distratto ed entrano in collusione distruttiva con la nostra ragione. C’è una continuità del male che pare non si possa curare, che neppure ci insegna ad evitarlo, come se fossimo predestinati a continue scelte difficili e a feroci sollecitazioni pericolose da educare. I confini fragili fra le pulsioni e le riflessioni sono sempre più trasparenti, e di fronte a questi episodi sembrano anche più indifesi. Come forse, anzi sicuramente, sono tutte le anime che respirano.
edizione digitale
Il Mattino di foggia