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I pensieri dell'Altrove

Le voci socchiuse della stanza del cuore

Così io provo a cercarmi. Perchè se non ci si chiama, se non ci si vede, la concreta e banale possibilità è che irrimediabilmente ci si possa dimenticare. Persino di noi.

Le voci socchiuse della stanza del cuore

È chiusa, la stanza del cuore. Cadono i colpi da un muro freddo al pavimento, ritornano al soffitto, si perdono, scappano. C'è solo questo letto, consumato dalla vecchiaia e dalle passioni disperse come ceneri in un cielo di novembre. È un letto alto, senza accessori, è scuro e rigoroso, il materasso con gli avvallamenti sul lato sinistro e il copriletto che una volta doveva essere bianco, con in mezzo i ricami siciliani. Scende lungo i fianchi del letto, a destra è più corto perché dall'altra parte si è allungato per nascondere una macchia gialla abbandonata, ha il carattere del corredo degli anni cinquanta, con le frange scomposte, lasciate sole verso il basso e la loro destinazione. È silenziosa, la stanza del cuore. È stata chiusa la finestra, non solo ai rumori della strada ma a quelli della vita, alla muffa non piace la confusione, preferisce concentrarsi in un semibuio complice e statico, come la polvere grigia sul davanzale ampio. In questa natura morta ed uniforme cambia la concezione del tempo, si stringe in una visione antica, si condensa in una faccia, si definisce in una sfumatura di un gesto che pareva scordato, di un tocco come un respiro che si appoggia sulle spalle e ti fa fermare le gambe. Senti le voci, ti ricordi le parole, riconosci i passi e le ombre, affondi nella bolla, si fa chiara la storia e più comprensibili le sue conseguenze. La stanza non offre alibi alla dimenticanza, tutto torna, nelle aggressioni della mancanza al rigurgito del superfluo, nel tentativo di respingere i giudizi ingiusti e spietati, nell'incomprensione di un rimprovero ruvido, nei graffi sui muri della coscienza innocente. La stanza è sola. La stanza è la pancia della madre, quella che ci fu assegnata in quel momento di furore e sangue, è una scatola che trattiene un un sogno, oppure un brutto sogno. Sono i morti che non scordiamo, ma che continuiamo a pensare, solo che adesso non ci vediamo più e, credo, loro un po', di noi, si sono proprio scordati. In questa stanza, allora, provo a cercarmi io, a chiamarmi per nome e per affetto, per compensare la paura provo ad affidarmi a me stessa, alla mia storia e alle mie soluzioni, provo a ritrovarmi. Provo a produrre difese, convinta di meritarmele. Perché la mia sensazione è che siamo come le frange del copriletto sbiadito e ricco di ricami siciliani, siamo la stoffa sfilacciata, quei lembi ultimi, appesi e lasciati senza rimorsi al tempo ed al loro destino. Così io provo a cercarmi. Perchè se non ci si chiama, se non ci si vede, la concreta e banale possibilità è che irrimediabilmente ci si possa dimenticare. Persino di noi.

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Mariantonietta Ippolito

Mariantonietta Ippolito

Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.

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