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L'ultima sedia

Una delle prove più impegnative nelle lunghe attese del proprio processo è quella di attendere, perlomeno, in una condizione di limitato disagio

Nessuna perizia psichiatrica, a processo l'assassino per gelosia del consulente del lavoro di Manfredonia

Le aule del tribunale di Foggia

Ciò che non è sacrificabile, nelle attese, è la condizione nella quale si trascorre il tempo, alla quale nessuno può rimediare da sé, salvo che non sia permeato di cultura asiatica e della serena faccia tosta per usarla. In buona sostanza, è dura rimanere in piedi per quattro ore minimo. Gli orientali sono padroni della situazione; mangiano seduti sui talloni, che riescono a tenere a terra quando sono accovacciati (provate, vi sfido) e le sedie sono un oggetto sconosciuto.

Le aule del tribunale di Foggia, come tutti i palazzi di Giustizia, vedono una frequentazione dei corridoi particolarmente affollata. Uffici finanziari, comunali, tecnici, nessuno ospita più gente di quanta non ne stazioni all’ingresso di una stanza nella quale si sta giudicando qualcuno, nemmeno gli ambulatori. Pochi notano un fenomeno che si pone tra lo psicologico ed il sociale: la zona esterna alle aule, se ben gestita, può diventare una efficace camera di compensazione. Il dentro ed il fuori sono vasi comunicanti e tutte le frustrazioni, le ansie e la rabbia, se non si riesce a lasciarle fuori entrano in aula con tutta la carica distruttiva che riescono ad accumulare, falsando ogni fenomeno processuale, anche il più resistente.

Una delle prove più impegnative nelle lunghe attese del proprio processo è quella di attendere, perlomeno, in una condizione di limitato disagio. Il cellulare ha fatto molto, a dire il vero, consentendo quel contatto con il mondo esterno altrimenti inesistente. Per i più organizzati -attrezzati a sopravvivere nel mondo moderno in cambio del modesto prezzo della propria anima- un buon portatile consente di lavorare nell'attesa, vivendo così tra le righe del pentagramma.

Ma ciò che non è sacrificabile, nelle attese, è la condizione nella quale si trascorre il tempo, alla quale nessuno può rimediare da sé, salvo che non sia permeato di cultura asiatica e della serena faccia tosta per usarla. In buona sostanza, è dura rimanere in piedi per quattro ore minimo. Gli orientali sono padroni della situazione; mangiano seduti sui talloni, che riescono a tenere a terra quando sono accovacciati (provate, vi sfido) e le sedie sono un oggetto sconosciuto.

Anche il sottoscritto, quando si siede sui talloni nel dojo, convinto di essere un gran figo, soccombe a crampi devastanti dopo meno di 5 minuti. Insomma, le sedie servono. E se non si ha la forza di concentrarsi per lavorare, almeno si risparmia la somiglianza dei colleghi con i deportati all’ingresso dei lager, appena scesi dal treno merci.

Il nostro Consiglio dell’Ordine ci aveva pensato, e aveva acquistato 150 sedie da ufficio. Dignitose, comode, un po appiccicate al culo con le temperature a 35 gradi in Tribunale (ma questa è un'altra storia) e per un po gli avvocati, ma soprattutto i cittadini, avevano trovato un po di conforto. Poi, piano piano, qualcosa è successo. Come in un pollaio con il buco nella rete, dove le galline cominciano a sparire, abbiamo dovuto prendere atto che qualche volpe si aggirava nelle vicinanze. Con la velocità delle sparizioni dei maghi dopo il ritorno di Voldemort (ops, di “voi sapete chi”), di ogni singola sedia non si è improvvisamente saputo più nulla. Almeno i maghi si potevano nascondere. Anche Lumacorno si è travestito da poltrona! Le povere sedie, invece, nulla hanno potuto fare.

La mia sedia preferita, intanto, si trovava in una posizione defilata, dietro il busto dell'immenso avvocato Iannarelli, e aveva anche perso quella patina sudaticcia tipica di quando si toglie la plastica. Ogni giorno mi aspettava. Rincantucciata al fianco di una cassettiera –dove è impossibile infilare le gambe e quindi non la usava nessuno– era lontana dal pigro uso di colleghi, avventori, testimoni e mamme allattanti, incuranti del divieto di portare minori, e inconsapevoli della stanza approntata dal Consiglio dell’Ordine (altro gesto di civiltà ignorato dai cacadubbi e da chi si lamenta per professione). Avevamo fatto amicizia e le avevo anche dato un nome: Marlena. Poi un brutto giorno è sparita anche lei.

Gli avvocati sono pronti a dare battaglia per i diritti altrui, ma quando si tratta dei propri sono come lo scarparo, che viaggia con le scarpe rotte. Spesso nei capannelli parliamo di assaltare la Bastiglia e sguinzagliarci alla ricerca dei colpevoli, in giro per la città, ma per gli altri siamo disposti a spendere per un investigatore, per noi, no. Così con i colleghi sono tornato a sedermi sui tavoli, sulle balaustre, sul muro, invidiando Spiderman, mentre apro i fascicoli in posizioni tali che il circo di Montecarlo mi farebbe un contratto sul momento. E, come i colleghi, anch'io ormai canto mestamente la mia canzone, pensando ad una sedia comoda dove attendere il mio processo: Marlena torna a casa, che non voglio più aspettare. Prima di diventare famosi i Måneskin sono passati sicuramente di qui.

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Marco Scillitani

Marco Scillitani

È nato nel 1967, il 23 novembre, giorno che gli ha consentito di festeggiare un compleanno indimenticabile con il terremoto del 1980. Fa l'avvocato non per vivere, ma perché lo trova interessante e, non avendo mai saputo usare le mani gli è parso il metodo più efficace per raddrizzare le cose storte. Insegna Magia e Formule all'Università, ma di nascosto. Chi lo ascolta crede che parli di Procedura penale. Solo il titolare della cattedra se ne è accorto ma fa finta di niente. Da piccolo ha cominciato a osservare quello che gli accadeva intorno, collezionando storie e territori immaginari. Quando qualcuno glielo chiede, le restituisce. Ma non si assume responsabilità.

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