IL MATTINO
AntichiRitorni
09.12.2018 - 02:20
Il mito è ricco di episodi di benefattori traditi e ingrati ma, tra di tutti, l’ingratus per antonomasia è Issione.
“Fai del bene e scordalo” recita un famoso proverbio, nato dal fatto che sempre più spesso i beneficiati non mostrano riconoscenza verso i benefattori. Lo sapeva bene il filosofo Seneca (I sec. d.C.) che nel trattato “Sui benefici” spiegava come il beneficio sia un'azione degna per sé, che prescinde da ogni convenienza e utilitarismo, ed è fonte di arricchimento sia per chi dona che per chi riceve; ciò che invece mina l’equilibrio del beneficio è l’ingratitudine che spesso si annida negli animi degli avidi. Prima di Seneca, tuttavia, il mito è ricco di episodi di benefattori traditi e ingrati ma, tra di tutti, l’ingratus per antonomasia è Issione. Figlio del re dei Lapiti, sposò Dia, figlia dell’eroe Deioneo che Issione, da bravo genero qual era, gettò nei carboni ardenti; a quanto pare per non pagare al suocero il “prezzo della sposa”, ovvero la compensazione matrimoniale versata dallo sposo all’atto del matrimonio come pattuito. Orbene, Issione aveva violato un foedus (un patto) e si narra che fu il primo a portare tra i mortali l’assassinio di congiunti, eppure Zeus lo perdonò. Difatti, dopo l’azione scellerata Issione fu perseguitato dalla totalità dei mortali, tanto che fu preso da follia; solo Zeus si mosse a pietà e dopo averlo purificato del delitto commesso, gli permise addirittura di partecipare alla sua mensa. Qui il beneficiato tentò di circuire Era (dea tra le dee e moglie del re dell’Olimpo); Zeus se ne accorse e allora, per cogliere Issione in flagranza di reato, creò un simulacro della consorte Era, in tutto identica a lei ma fatta da una nuvola e, pertanto, chiamata Nefele. Poi la inviò presso il re lapita. Issione non si fece problemi e, irriverente persino nei confronti del Padre degli dèi, fu sorpreso in palese amplesso con Nefele/Era. Ecco che allora Zeus, pentitosi di averlo salvato e aiutato una volta, lo condannò a girare perennemente nella volta celeste, legato ad una ruota infuocata e flagellato senza pietà, dovendo ripetere in eterno «I benefattori devono essere onorati». Per secoli Issione è stato l’emblema dell’‘ingrato’, come anzidetto, ma anche dell’immemor (colui che dimentica il bene ricevuto) e dell’infidus (colui che infrange un patto di lealtà), e soprattutto del superbo che pecca di tracotanza ed empietà, perché crede di poter ingannare persino gli dèi, di poter fare ciò che vuole impunemente. Con Cesare Pavese, nell’opera intitolata “Dialoghi con Leucò”, abbiamo una interessante rivisitazione del mito (cfr. il dialogo “La Nube”):
«LA NUBE. Non sfidare la mano, Issione. È la sorte. Ne ho veduti di audaci più di loro e di te precipitare dalla rupe e non morire. Capiscimi, Issione. La morte, ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene. Lo sai questo?
ISSIONE. Me l’hai detto altre volte. Che importa? Vivremo di più.
LA NUBE. Tu giochi e non conosci gli immortali.
ISSIONE. Vorrei conoscerli, Nefele.
LA NUBE. Issione, tu credi che sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti – se per errore li disturbi nel loro Olimpo – ti piombano addosso, e ti danno la morte – quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.
ISSIONE. Dunque si può ancora morire.
LA NUBE. No, Issione. Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.
ISSIONE. Tu li hai veduti questi dei?
LA NUBE. Li ho veduti … O Issione, non sai quel che chiedi.
ISSIONE. Anch’io ne ho veduti, Nefele. Non sono terribili.
LA NUBE. Lo sapevo. La tua sorte è segnata…».
IL MITO DI ISSIONE IN UNA PIETRA D'ISERNIA
di Franco Valente, da Almanacco del Molise 1989
Esiste nel lapidario del Museo di S. Maria delle Monache a Isernia una pietra di cui non si conosce né il luogo di provenienza, né il contesto monumentale entro il quale era collocata. Si tratta di un frammento non particolarmente vistoso, dove è raffigurato a rilievo un uomo nudo che, a gambe divaricate in modo da formare un angolo retto, è inserito in una ruota perfettamente circolare. Il viso barbuto è piuttosto rovinato. la mano destra, anch’essa rovinata, è trattenuta all’innesto di uno dei raggi mediante un legaccio che sembrerebbe essere un serpente. La parte di destra della figurazione e quella in basso sono mancanti delle parti terminali, ma la simmetria complessiva è sufficiente per farci comprendere che si tratta di una immagine derivata dal mito di Issione, anche se non è chiaro se le finalità della rappresentazione fossero quelle di richiamare il personaggio della mitologia greca, o se invece il mitico racconto sia stato preso a pretesto per ricavare dalla sua fantastica storia solo la particolarità che egli si trovi inserito in una ruota. Infatti, secondo il racconto mitologico, la ruota dovrebbe essere a quattro raggi posizionati in maniera da formare una cosiddetta croce di S. Andrea, come appare in un vaso proveniente da Cuma e oggi sistemato nel museo di Berlino. Nel nostro caso la ruota è a otto raggi: due nascosti e coincidenti con le gambe, il terzo corrispondente all’asse verticale dorso-testa, gli altri cinque ben evidenti.
Issione, re dei Lapiti e figlio di Flegia, aveva scelto di sposare Dia, figlia di Deioneo (o Ioneo) promettendo al suo futuro suocero una sostanziosa dote. Il ricco premio nuziale sarebbe stato consegnato durante un festino che Issione aveva organizzato presso la sua dimora, ma in realtà la riunione conviviale altro non era che un tranello. Infatti, sulla soglia del palazzo Issione aveva fatto scavare una fossa che fu riempita di carboni ardenti. Dioneo, inconsapevole, vi cadde dentro e morì bruciato. Dopo l’azione malvagia Issione fu perseguitato dalla totalità dei mortali, tanto che fu preso da follia. Solo Zeus si mosse a pietà e dopo averlo purificato del delitto commesso, gli permise addirittura di partecipare alla sua mensa, ma il nostro eroe non tenne in alcuna considerazione la magnanimità del suo benefattore. Così architettò di sedurre Era, sposa di Zeus, sicuro che ella avrebbe accettato le offerte amorose per vendicarsi dei continui tradimenti del marito.
La dea invece riferì tutto allo sposo il quale si vendicò formando in una nuvola il simulacro di Era. Issione ubriaco non si accorse della sostituzione e si unì ad essa convinto di unirsi ad Era. Zeus, quando fu certo del tradimento del suo ospite, ordinò ad Ermete di frustarlo a sangue perché ripetesse: Chi fa del bene deve essere onorato. Poi lo fece legare con serpenti ad una ruota di fuoco a quattro raggi e lo scagliò nel cielo perché vi roteasse in eterno. Il simulacro di Era, che poi prese il nome di Nefele, generò un essere mostruoso che in età matura si accoppiò alle cavalle della Magnesia dando origine alla serie dei Centauri, tra i quali anche Chirone che divenne famoso per essere maestro di eroi e di divinità. La figura di Issione è stata ampiamente analizzata anche per comprendere i suoi significati simbolici. Secondo R. Graves (R. GRAVES, I miti greci, Longanesi 1955) il nome di Issione, formato da ischys (forza) e io (luna), fa pensare anche al termine ixias (vischio). Per questo Graves ritiene che egli raffiguri originariamente il re della quercia, dai genitali di vischio che rappresentavano il dio della folgore, che si univa in nozze rituali con la dea lunare propiziatrice della pioggia. Veniva poi flagellato perché il suo sangue e il suo sperma fertilizzassero il suolo. Decapitato con un’ascia, evirato, inchiodato a un albero e arso, i suoi parenti lo mangiavano sacramentalmente. Per P. Diel (P. DIEL, Le symbolisme dans la mitologie greque, Parigi 1952) nell’errore di Issione e, soprattutto, nell’immagine simbolica della ricaduta si trova condensata non solo la malvagità dello spirito, ma anche la vanità, che si riconosce nel tentativo di usurpare il posto di Zeus, e la depravazione sessuale, per aver provato a sedurre Era. Inoltre, congiungendosi alla nuvola confusa con Era consensiente, Issione dimostra la sua vanità megalomane essendosi convinto di essere stato preferito a Zeus, re degli dei, e credendo di godere della sublimità perfetta. La punizione infertagli allora viene a significare l’essere precipitato dalla regione del sublime al tormento del sub-conscio per cui il mito di Issione viene a rappresentare l’impotenza sessuale per la sua incapacità di possedere realmente Era, riuscendo egli ad accoppiarsi solo con il suo simulacro. Secondo S. Diebner (S. DIEBNER, Considerazioni sulle lapidi romane, in F.VALENTE, Isernia. Origine e crescita di una città, Campobasso 1982) nella raffigurazione di Isernia vi è un significato sepolcrale, come è attestato per scene mitiche su are funerarie e su un sarcofago della stessa epoca, che si trova a Roma nel museo di Villa Giulia. Non è, comunque, da escludere una diversa interpretazione dell’Issione di Isernia. Pur se è plausibile l’ipotesi che l’immagine facesse parte di una tomba, la sua presenza può anche rappresentare semplicemente la ripetizione formale di un modello iconografico di cui, però, non si intendeva recepire il significato simbolico originario. Oppure esso, addirittura, può rappresentare l’applicazione di un soggetto mitologico ad un modello geometrico cui farà riferimento anche Vitruvio (VITRUVIO, De Architectura, Libro III ): Item corporis centrum medium naturaliter est umbilicus. Namque si homo conlocatus fuerit supinus manibus et pedibus pansis circinique conlocatum centrum in umbilico eius, circumagendo rotundationem utrarumque manuum et pedum digiti linea tangentur. Non minus quemadmodum schema rotundationis in corpore efficitur, item quadrata designatio in eo invenietur.
(Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l’ombelico. E infatti se un uomo fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso fosse puntato nell’ombelico di questi, descrivendo una circonferenza le dita di entrambe le mani e dei piedi sarebbero toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene istituita nel corpo, così si rinviene in esso il disegno di un quadrato) Il tentativo di ritrovare leggi geometriche nella natura e soprattutto la ricerca di moduli elementari è ampiamente attestata nell’antichità Valga per tutti l’esempio della sezione aurea, di origine pitagorica, definita da Euclide (EUCLIDE, Elementi, Libro IV ) come quella parte di un segmento che è medio proporzionale tra l’intero segmento e la parte rimanente , a:x = x: (a-x), e che sarà alla base dei processi progettuali di buona parte dell’architettura ellenistica compresa quella sannitica (F. VALENTE, Influenze pitagoriche nel Sannio, La Sezione Aurea nel Molise, in Molise oggi, Campobasso 21.7.1986). Come pure è riconosciuto il carattere sacro che veniva dato alle leggi della matematica e della geometria. Quindi non sembra che si possa del tutto escludere che la circostanza dell’Issione imprigionato in una ruota sia divenuta il pretesto formale per esplicitare il rapporto proporzionale nella figura umana che con le estremità delle mani e dei piedi raggiunge i vertici del quadrato inscritto in una circonferenza. Questa immagine, ripresa dalla cultura greca e codificata da Vitruvio, ebbe nel seguito grande successo, tanto che nel Rinascimento gli ambienti scientifici che si erano orientati alle analisi più accurate e particolari delle singole parti del corpo umano.E’ singolare verificare che nel momento in cui sia Cesariano, sia Leonardo provarono a ricostruire graficamente quanto da Vitruvio veniva descritto teoricamente, si sia definita una immagine che in maniera straordinaria coincide con la iconografia mitologica dell’Issione e in particolare di quella conservata nel museo di Isernia.
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