IL MATTINO
AntichiRitorni
16.09.2018 - 00:59
Alcune hanno già dato il via al nuovo anno, altre riapriranno a giorni; parliamo delle scuole che stanno accogliendo in questi giorni ragazzi e ragazze, tristi e penitenti, per il ritorno sui banchi. Se è vero che le nuove generazioni si dimostrano sempre meno interessate all’istruzione in sé, quanto piuttosto ad un ‘pezzo di carta’ spendibile nel mondo del lavoro, è pur vero che la scuola – un’istituzione antichissima – non è sempre stata così ‘facile’ e accogliente come lo è ora, dove sembra che sempre più la figura del docente stia perdendo autorità dinanzi a ragazzi sempre più indisciplinati e a famiglie sempre più propense ad essere avvocati delle cause perse dei propri pargoli piuttosto che educatori. In un panorama desolante, dove la scuola italiana e i docenti che la compongono sono sempre più soli a combattere ineducazione, ignoranza (e persino microcriminalità talvolta), mi piace ricordare come era la “buona scuola” romana.
Innanzitutto grande centralità, specie nelle prime fasi di crescita era attribuita alla famiglia e, in special modo, al capofamiglia (pater familias), che aveva il compito di crescere, educare e istruire i figli dalle basi, affinché diventassero buoni cittadini romani. Tra i valori che il pater aveva il dovere (avete letto bene: dovere! Perché ‘genitore’ è facile diventarlo ma non esserlo) c’erano sopra ogni cosa la pietas (la ‘devozione’ verso gli dèi in primis, la patria, la famiglia e i defunti), la fides (intesa come lealtà), la gravitas (serietà o integrità) la magnanimitas (grandezza d’animo) e l’industria (operosità, il sapersi ingegnare). Nella fase dell’infanzia (e prima che nascesse la scuola pubblica) il bambino riceveva, inoltre, i primi rudimenti da un pedagogo o precettore che dir si voglia, che solitamente era uno schiavo o un liberto colto, spesso proveniente dalla Grecia (si pensi a Polibio che, prigioniero politico romano, fu maestro degli Scipioni e rimase accanto a Scipione Emiliano fino all’età adulta, tanto da seguirlo anche nelle campagne militari). Successivamente, con la nascita della scuola pubblica, a circa sei anni il bambino andava dal litterator, quest’ultimo era un maestro che insegnava a leggere, scrivere e far di conto; c’era poi la scuola del grammaticus, che impartiva le lezioni di letteratura, ovvero faceva conoscere e commentare gli autori classici; ultima tappa era la scuola del rhetor. Quest’ultima era fondamentale per la formazione del cittadino. La retorica, infatti, era per i Romani la disciplina delle discipline, l’arte suprema, poiché chi padroneggiava le leggi della retorica, la parola, la comunicazione aveva nelle sue mani il potere della persuasione, la facoltà di convincere; e ciò, in un mondo che si fondava sulla credibilità di un cittadino e sulla sua capacità di parlare nel foro, era più che imprescindibile. Ecco allora che quando il ciclo di studi terminava un Romano era davvero ‘formato’ se diveniva vir bonus, dicendi peritus (per dirla con Catone), ossia “uomo per bene, esperto nell’arte di parlare”.
Ma come era la scuola romana? Come si comportavano i maestri? E i discenti? Ovvero qual era la linea pedagogico-educativa da seguire? Ve lo raccontiamo nel prossimo blog domenicale per fare un confronto con la nostra situazione attuale.
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