IL MATTINO
AntichiRitorni
22.01.2017 - 01:32
Fuoco greco. Codice Skilitzes (1300)
Chi conosce il mito di Medea sa che la principessa della Colchide era nota al mondo greco per essere una madre infanticida ma anche per la sua natura di terribile e potente maga. Tra gli episodi più noti della saga mitica c’è l’incendio del palazzo di Corinto, una sequenza che si trova sia nella tragedia greca di Euripide che in quella latina di Seneca; in particolar modo in quest’ultimo si legge che, per vendicarsi della principessa Creusa e del re Creonte che le avevano portato via il marito Giasone (il re di Corinto, infatti, promette a Giasone di aiutarlo solo se sposerà sua figlia, abbandonando la barbara moglie), Medea invia alla novella sposa delle splendide vesti, intrise di un potente veleno, che però agisce solo se a toccarle è la diretta interessata. Si trattava, secondo il mito, di una magia ‘da contatto’, ossia solo una volta che fossero state indossate da Creusa le vesti avrebbero cominciato a sprigionare la loro magia, ovvero a prendere fuoco, e così fu. Sempre nella tragedia senecana si legge che il fuoco era di natura ‘straordinaria’, infatti – contravvenendo alle leggi di natura – più si gettava acqua, più le fiamme si accrescevano anziché spegnersi, decretando l’espandersi dell’incendio e la morte di tutti coloro che erano nella reggia. L’immagine di un fuoco che avvampa con l’acqua era considerato nell’immaginario antico una “adynaton” (cioè una “cosa impossibile”), un prodigio inspiegabile. Tuttavia se analizziamo alcune fonti tarde, troviamo che lo storico Teofane (IX sec.), raccontando di come i cittadini di Costantinopoli avessero respinti gli arabi (durante una battaglia navale del 678 d.C. e poi nel 717), allude ad una potente arma in possesso dei bizantini, creata da un certo Callinico (personaggio forse mai esistito), il quale avrebbe creato un fuoco che “si infiammava con l’acqua”; la formula doveva essere per lo più a base di petrolio, pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva. Tale formula, nel dettaglio, era tenuta segreta (un po’ come quella della nutella o della coca cola), in modo tale che i nemici non potessero riprodurla, per questo l’arma era nota anche come “fuoco sacro”. Tale composto veniva poi inserito in una sorta di primitivo lanciafiamme in rame e – capiamo bene – che se il getto era diretto contro le navi nemiche (intrise per l’appunto di pece) la distruzione era certa, grazie al fatto che la combustione, in virtù della calce viva, non poteva essere spenta con acqua (sulla quale addirittura galleggiava), ma solo con aceto, sabbia o tutt’al più urina. Un sortilegio? No, questione di chimica!
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