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Quando Medea creò un fuoco che si accresce con l’acqua

Dal mito alla storia. Sortilegio? No, questione di chimica!

Quando Medea creò un fuoco che si accresce con l’acqua

Fuoco greco. Codice Skilitzes (1300)

Chi conosce il mito di Medea sa che la principessa della Colchide era nota al mondo greco per essere una madre infanticida ma anche per la sua natura di terribile e potente maga. Tra gli  episodi più noti della saga mitica c’è l’incendio del palazzo di Corinto, una sequenza che si trova sia nella tragedia greca di Euripide che in quella latina di Seneca; in particolar modo in quest’ultimo si legge che, per vendicarsi della principessa Creusa e del re Creonte che le avevano portato via il marito Giasone (il re di Corinto, infatti, promette a Giasone di aiutarlo solo se sposerà sua figlia, abbandonando la barbara moglie), Medea invia alla novella sposa delle splendide vesti, intrise di un potente veleno, che però agisce solo se a toccarle è la diretta interessata. Si trattava, secondo il mito, di una magia ‘da contatto’, ossia solo una volta che fossero state indossate da Creusa le vesti avrebbero cominciato a sprigionare la loro magia, ovvero a prendere fuoco, e così fu. Sempre nella tragedia senecana si legge che il fuoco era di natura ‘straordinaria’, infatti – contravvenendo alle leggi di natura – più si gettava acqua, più le fiamme si accrescevano anziché spegnersi, decretando l’espandersi dell’incendio e la morte di tutti coloro che erano nella reggia. L’immagine di un fuoco che avvampa con l’acqua era considerato nell’immaginario antico una “adynaton” (cioè una “cosa impossibile”), un prodigio inspiegabile. Tuttavia se analizziamo alcune fonti tarde, troviamo che lo storico Teofane (IX sec.), raccontando di come i cittadini di Costantinopoli avessero respinti gli arabi (durante una battaglia navale del 678 d.C. e poi nel 717), allude ad una potente arma in possesso dei bizantini, creata da un certo Callinico (personaggio forse mai esistito), il quale avrebbe creato un fuoco che “si infiammava con l’acqua”; la formula doveva essere per lo più a base di petrolio, pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva. Tale formula, nel dettaglio, era tenuta segreta (un po’ come quella della nutella o della coca cola), in modo tale che i nemici non potessero riprodurla, per questo l’arma era nota anche come “fuoco sacro”. Tale composto veniva poi inserito in una sorta di primitivo lanciafiamme in rame e – capiamo bene – che se il getto era diretto contro le navi nemiche (intrise per l’appunto di pece) la distruzione era certa, grazie al  fatto che la combustione, in virtù della calce viva, non poteva essere spenta con acqua (sulla quale addirittura galleggiava), ma solo con aceto, sabbia o tutt’al più urina. Un sortilegio? No, questione di chimica!

 

 

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Alba Subrizio

Alba Subrizio

«E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama…». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico… che fanno bene anche oggi.

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