IL MATTINO
AntichiRitorni
28.08.2016 - 01:20
Correva l’anno 62 d.C., precisamente era il 5 febbraio, quando la terra tremò radendo quasi al suolo Stabia, Pompei, Ercolano e buona parte di Neapolis (quelle stesse città che sarebbero poi state distrutte di lì a qualche anno dalla terribile eruzione del Vesuvio del 79). C’erano stati nel corso della storia delle popolazioni latine già altri terremoti (quello del 174 a.C. che interessò la Sabina; 100-99 a.C. il Piceno, Umbria, Norcia; 76 a.C. l’area di Rieti) a ricordarci che la dorsale appenninica è sempre stata una zona altamente sismica, ma quello del 62, che interessò la Campania, fu oggetto di studio da parte del filosofo Seneca, che dedicò alla sismologia il libro VI delle sue “Questioni naturali”. Sebbene gli studi in materia di terremoti siano sicuramente più avanzati rispetto a duemila anni fa, tuttavia – alla luce della recente catastrofe che ha colpito l’area reatina – più che di cause e prevenzioni del sisma (di cui pure il trattato latino parla) ho inteso soffermarmi su qualcosa che possa essere ritenuto valido, ora come allora, a confortare l’animo di chi ha vissuto questa tragedia o di chi la teme. Dato che, come disse la sublime poetessa Alda Merini, «mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire», preferisco non aggiungere al coro di voci che stanno disquisendo (a torto o a ragione) sull’argomento anche la mia, per cui lascio parlare direttamente Lucio Anneo Seneca, che così si rivolgeva al suo discepolo Lucilio: «Bisogna cercare modi per confortare gli impauriti e per togliere il grande timore. Infatti, che cosa può sembrare a ciascuno di noi abbastanza sicuro, se il mondo stesso viene scosso e le sue parti più solide vacillano? Se l’unica cosa che c’è di immobile e di fisso in esso tremola; se la terra ha perso quella che era la sua peculiarità, la stabilità: dove si acquieteranno le nostre paure? Quale rifugio troveranno i corpi, dove si ripareranno, se la paura nasce dal profondo e viene dalle fondamenta? Lo sbigottimento è generale, quando le case scricchiolano e si annuncia il crollo. Allora ciascuno si precipita fuori e abbandona i suoi penati e si affida all’aria aperta: a quale nascondiglio guardiamo, a quale aiuto, se il globo stesso prepara rovine, se ciò che ci protegge e ci sostiene si apre e vacilla? […] Contro la morte non c’è conforto più valido del fatto stesso che siamo mortali, e contro tutti questi eventi che ci terrorizzano dal di fuori la consapevolezza che in noi stessi ci sono innumerevoli pericoli. Che cosa c’è di più stolto che temere l’oscillare della terra o l’improvviso precipitare di monti e l’invasione del mare gettato fuori dalla riva, quando la morte è presente dappertutto e ci viene incontro da ogni parte, e niente è così minuscolo da non avere abbastanza forza per distruggere il genere umano? […] Morire è inevitabile, in un luogo o in un altro, un giorno o un altro: stia pure ferma questa terra e si mantenga nei suoi limiti e non sia scossa da alcun colpo, prima o poi mi ricoprirà. Che differenza c’è se sarò io a gettarla su di me o vi si getterà da sola? […] Quindi, se vogliamo essere felici, se non vogliamo essere esposti alla paura degli uomini né degli dèi né delle cose, se vogliamo disprezzare la fortuna che promette cose senza valore e minaccia mali senza importanza, se vogliamo vivere una vita tranquilla e gareggiare in felicità con gli dèi stessi, bisogna tener l’anima sempre pronta: […] La morte è una legge di natura, la morte è un tributo e un dovere per i mortali, ed è il rimedio per tutti i mali: chiunque ha paura la invoca. Lasciando da parte tutto il resto, Lucilio, medita questo soltanto: non aver paura della parola “morte”; fa’ sì che ti diventi familiare, pensandoci molto, cosicché, se ce ne sarà bisogno, tu sia in grado di andarle incontro».
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