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Profeti e Sibille

De Nittis come Altamura… nemo propheta in Patria

Un ritratto di Giuseppe De Nittis

Un ritratto di Giuseppe De Nittis

Ad essere confinato nell’oblìo della storia dell’arte non è stato solo il foggiano Francesco Saverio Altamura (a cui da poco la città natia ha dedicato una felicissima mostra monografica), ma la stessa sorte è toccata fino a qualche anno fa anche a Giuseppe De Nittis; il nostro vicino di casa, barlettano di origine e ora – col riordino delle Provincie –, un foggiano d’adozione.

Peppino l’italiano, come lo chiamavano familiarmente o forse solo con tono un po’ sprezzante i francesi. Tanta confidenza ebbe a Parigi e godè di tanta considerazione dei suoi contemporanei d’oltralpe grazie anche al “fortunato” matrimonio con la nobildonna Lèontine, non bellissima (niente di che, diremmo noi), ma affascinante e colta. Molto. Tanto che avendo accesso privilegiato al di lei, ambito salotto nella Ville Lumière, quel piccolino di Peppino, si trovò “a tu per tu”con Manet e Degas, Wilde e Zola, i Dumas e Daudet, Caillebotte e la blasonatissima principessa Matilde Bonaparte. Qualcuno dei quali gli tirò persino qualche tiro mancino. E un parigino un po’ pettegolo alla morte del pugliese, racconto che non pochi furono i corteggiatori della colta Tatine: Manet e Dumas figlio le scrivevano puntualmente, lettere d’amore appassionate. Ma De Nittis ci aveva visto lungo, l’aveva impalmata, e si era piazzato bene bene in quell’ambiente patinato. Lì conobbe anche i pittori impressionisti, tanto da essere l’unico italiano presente alla mostra del fotografo Nadar, quella per intenderci dei “Rifiutati”.   

Qui si ritrovarono ad esporre artisti tutt’altro che delusi dal “rifiuto”, anzi, Aristocratici pieni di spocchia e un po’ bohèmienne, che dipingevano lungo la Senna, lontani dagli studi e dalla pittura di cavalletto, immortalando regate e corse di cavalli. Gli anticonformisti se la passavano bene con la pila in tasca e le idee da rivoluzionari. Ma non era stato così per il povero Peppino nella sua Barletta. Qui dipingeva il paesaggio dell’Ofanto e il passaggio del treno che a quei tempi suonò come fosse l’arrivo di internet!

Non pittura en plein air per lui, ma quello che passava il convento: un cavalletto e una tavolozza di colori e poi via da casa, fuori che lì lo spazio era poco,  si facevano i mestieri e si lavorava. Poi gli studi a Napoli, e il passaggio dalla pianura dal Tavoliere delle Puglie ai Campi Flegri, col sapore della novità e dello studio. E poi il grande passo alla volta della meta più ambita a quei tempi, la Parigi degli impressionisti e la pittura a punta di pennello, densa di suggestioni e di magmatici colori.

Ma morì giovane Peppino, piccoletto e cagionevole di salute. Fece a tempo a vedere Jacques adolescente e salutò  per sempre l’amata Leontine. Fu lei a raccogliere poi la collezione del marito ormai defunto e a pensare che fosse la sua città ad essere degna destinataria di quel patrimonio artistico. Si, laggiù a Barletta, dove l’avventura di Peppino aveva avuto inizio. Che intuizione e che cuore Leontine, che non aveva fatto i conti con i “vicini” italiani, a volte un po’ difficili da comprendere. E anziché finire nell’allestimento ineguagliabile del Musée d’Orsay, per anni i quadri di De Nittis si sono dispersi, poi ricomposti nelle sale di un improvvisato Museo comunale, per poi passare alle sale nobili del castello normanno svevo in una Pinacoteca appositamente creata (appena restaurato) per finire degnamente i suoi giorni nella deliziosa location del palazzo barocco della famiglia Della Marra.

Quanta fatica per approdare ad un allestimento degno della fattura della collezione De Nittis e del  gesto ineguagliabile di generosità della moglie parigina. Che genio sprecato quel Peppino che ci siamo fatti scappare senza neanche tanto ricordarci poi di lui e della sua memoria artistica£

Se accadesse oggi, forse avrebbe sorte migliore e chissà se il buon Niki non cercherebbe di arginarne la dispersione con una legge regionale fatta ad hoc per evitare la fuga dei cervelli. Chissà dicevamo, e comunque è proprio vero che – come si legge nei Vangeli – Nemo propheta in Patria.

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Francesca Di Gioia

Francesca Di Gioia

Francesca Di Gioia è docente di Arte Sacra e Beni Culturali del territorio presso la Facoltà Teologica Pugliese di Foggia. Si è laureata cum laude in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Istituto di Magistero "Suor Orsola Benincasa" di Napoli. Si è specializzata in incisione presso l'Istituto Nazionale per la Grafica di Roma e si occupa di Grafica d'Arte. E' giornalista pubblicista, collabora dal 2005 con il settimanale "Voce di Popolo". Ha conseguito il Diploma in Biblioteconomia presso la Scuola della Biblioteca Apostolica Vaticana ed è Operatore Didattico dei Musei Vaticani. Ha pubblicato "Invenit, delineavit et sculpsit. Per un approccio alle Arti Grafiche" per i tipi delle Edizioni Il Castello e "Vissi d'arte. Cinque anni di penna appassionata" con le Edizioni del Rosone.

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