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"Ferrari" la storia di un marchio glorioso, cinico ma soprattutto mondiale

"Ferrari" la storia di un marchio glorioso, cinico ma soprattutto mondiale

«Ho sempre considerato la donna non un elemento necessario della vita di un uomo, ma la ricompensa del lavoro. Non ho mai anteposto una donna al lavoro. Dopo aver lavorato tutta la giornata, una donna è il premio. Non prima, mai!»
È Enzo Ferrari a dire questo, e Michael Mann regista del film “Ferrari” lo ha interpretato alla lettera, dimostrando di avere studiato a lungo il Drake, uno dei tanti soprannomi "affibbiati" a Enzo Ferrari nella sua vita, e infatti il film proiettato all’ultima “Mostra del Cinema di Venezia”, con Pietro Ferrari ad applaudire in prima fila, e oggi nelle sale italiane, conferma questo e tutto ciò che è stato Ferrari, in maniera decisa.
La scelta di ricostruire la vita di Enzo Ferrari partendo dal ’57, l’anno dell’ultima Mille Miglia e delle morti che procurò, non è casuale né sbagliata perché quello fu il momento preciso in cui la Ferrari divenne il simbolo più prestigioso per l'Italia, e Ferrari l'uomo più vicino all’idea di imprenditore all'americana che questo paese abbia mai avuto.
È un film cinico e crudelissimo questo di Mann che tratteggia il protagonista del racconto, la sua vita pubblica e quella privata come se lui stesso avesse vissuto accanto a Ferrari, e ne fosse il testimone depositario e designato a raccogliere le memorie.
È tutto talmente vero, mai verosimile, da essere perfetto, ma molto più per un pubblico americano piuttosto che per quello italiano, che si riconoscerà nel dongiovannismo esacerbante del signore di Maranello, ma che non sarebbe mai potuto arrivare al suo smodato desiderio di successo, al punto di passare su qualsiasi cadavere, senza mostrare il benché minimo cedimento, una cosa questa che in Italia è ammessa solo per i criminali, proprio perché sono considerati figure di folklore, benché tossiche, grazie alle narrazioni televisive, e per questa ragione hanno il potere di fare di tutto senza doversi nascondere.
Eppure Ferrari si nascondeva, attraverso gli occhiali scuri che erano il suo modo di vivere la tensione in privato. Senza la possibilità di guardare l’altro negli occhi è praticamente impossibile avere con lui un contatto, e di fronte all'impossibilità di comunicare in maniera costruttiva si crea una cortina di ferro, che porta alla soggezione e poi alla sudditanza, tutte cose che Ferrari sapeva benissimo e che Mann ha riportato sullo schermo.
Nel film infatti è chiarissimo questo, ma è chiaro anche come Ferrari amasse i suoi figli (diversi per la legge italiana e anche per la sua coscienza) in maniera autentica, come accade a qualsiasi patriarca che non voglia disperdere il proprio lavoro e voglia assicurarsi la continuità.
E infatti Piero Ferrari ha sempre avuto per il padre parole di affetto, come lo stesso film documenta in maniera leggera.
Una volta capito questo si accetta di buon grado tutta questa durezza, cinematografica, e del vivere di Ferrari, diversamente non si capisce proprio il senso del film, che per narrare una storia di potere e di successo batte sul tasto doloroso di una personale e smaniosa voglia di desiderio di dominio e di primazia.
Cose che se non fossero esistite nella maniera in cui sono accadute, volute e portate al parossismo, non avrebbero avvinto il mondo intero intorno a un cavallino rampante, divenuto simbolo delle Ferrari, grazie alla Contessa Baracca «dalla quale (Ferrari) riceverà una foto con dedica e l’invito ad utilizzare il “Cavallino Rampante” come portafortuna sulle sue vetture.
«Fu essa a dirmi un giorno – racconta Enzo – Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo. Le porterà fortuna. […] Conservo ancora la fotografia di Baracca, con la dedica dei genitori con cui mi affidano l’emblema. Il cavallino era ed è rimasto nero; io aggiunsi il fondo giallo canarino che è il colore di Modena.»
Veniamo ai protagonisti e cioè a Adam Driver e Penélope Cruz, nella parte l'uno di Enzo Ferrari e l'altra in quella della moglie Laura Garelli.
Adam Driver non è stato la prima scelta del regista ma si è immedesimato perfettamente nel ruolo, aiutato moltissimo anche dagli occhiali parafulmine che lui ha saputo portare, forse osservando anche Piero Ferrari, che un po' gli somiglia fisicamente e che ha preso anch’egli l'abitudine di calzare le lenti scure come suo padre.
La Laura di Penélope Cruz è invece sempre incarognita, ma come Ferrari posseduta dal sogno del successo e delle auto, così da digerire qualsiasi cosa anche se con i dovuti distinguo.
È un film questo dove a tirare le fila sono le donne, quelle donne che Ferrari considerava un premio, ma che nei fatti erano al centro della sua vita, in una dimensione questa sì molto italiana, che sembra a chiacchiere proiettata verso un mondo più aperto, ma che in realtà continua a essere tribù.
Il resto è storia patria e avere scelto di dare questo taglio al film non è scontato né banale, tanto più che se il regista avesse voluto affondare e affossare il film nel gossip avrebbe potuto chiudere il cerchio con Fiamma Breschi, l’unica donna che umanizzò Ferrari, ma sarebbe diventata a questo punto una soap.
Questo film ha sollevato anche delle polemiche per la necessità del regista di scegliere attori non italiani come protagonisti per raccontare la storia.
Non lo so, credo che l'idea di Mann fosse quella di fare un prodotto transnazionale, tanto più che le Ferrari non sono solo un desiderio solo italiano ma appartengono a tutti, e poi perché lo stesso Ferrari nel suo bisogno di affermazione non è incasellabile in un semplice cliché nazionalistico.
E per come si è andata dipanando la storia anche il più dotato attore italiano non sarebbe stato adatto.
Pietro Ferrari è vivo e Adam Driver gli somiglia molto, e anche in questo il regista è stato fedele alla storia, il Drake nominò il figlio erede universale, un film che lo racconta nell'intimo poteva mai scegliere un Ferrari che non fosse fisicamente somigliante al suo erede?

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