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COVID-19

Lisa Caruso, la ricercatrice lucana a Philadelphia, racconta la pandemia negli States. «Ai miei conterranei dico di non abbassare la guardia»

«Non siamo ancora fuori pericolo e nuovi focolai possono emergere se non prestiamo attenzione»

Lisa Caruso, la ricercatrice lucana a Philadelphia, racconta la pandemia negli States. «Ai miei conterranei dico di non abbassare la guardia»

Sono 18 milioni e ottocento i casi confermati di Covid-19 nel mondo. Un dato allarmante che si riflette in quello dei decessi totali più di 700 mila. Gli States sono senza dubbio il Paese più colpito dalla pandemia, con più di 4 milioni di casi di contagio appurati e verificati. Gli Usa hanno dovuto registrare più di 1.200 nuovi decessi in un solo giorno. Il virus circola e continua a galoppare anche in Brasile, in Spagna, in Bulgaria, in Romania e in Australia oltre che in altre nazioni. Ad Honk Kong si teme l’imminente arrivo di una terza ondata imponendo misure drastiche. Il mondo intero ha fatto i conti con la sua vulnerabilità, affidando le proprie speranze nelle mani di giovani ricercatori, che lavorano incessantemente per creare un vaccino. Lisa Caruso è una professionista lucana, ricercatrice presso il Wistar Institute nel team del professore Italo Tempera, un centro di ricerca che si occupa di cancro immunologia e malattie infettive, la sua indagine verte in particolare sul virus di Epstein Barr e studiando l’interazione di quest’ultimo con l‘ospite. La redazione aveva contatto Lisa all’inizio dell’emergenza Covid, quando questa sembrava lontana sia per i lucani e ancor di più per gli States. Oggi la situazione è cambiata radicalmente.

Gli States sono sicuramente i più colpiti dalla pandemia, cosa è andato storto?

«Non hanno funzionato le stesse cose che non hanno funzionato in altri paesi: sottovalutazione della situazione, mancanza di screening e mancanza di coordinazione a livello federale. Gli Stati Uniti non hanno sfruttato il vantaggio temporale, per esempio, nel produrre test per la determinazione del virus o ventilatori utili per il trattamento dei pazienti nelle terapie intensive, ma ci si è soffermati su aspetti meno rilevanti come la protezione dei confini. Tutto questo poi è continuato e amplificato da un comportamento negazionista nei più alti livelli dell'amministrazione. A sopperire in parte sono stati i vari governatori per lo più democratici che hanno adottato provvedimenti atti a rallentare la diffusione del virus come il lockdown, il distanziamento sociale e l'utilizzo delle mascherine».

A livello sanitario, qual è la situazione attuale?

«In alcuni stati la situazione è sotto controllo mentre in altri il virus continua a diffondersi e ci sono situazione di criticità nelle terapie intensive. Inoltre il sistema sanitario americano non godeva di un’ottima salute prima dell’arrivo della pandemia. Molti dipartimenti sanitari qui sono impegnati nel gestire quotidianamente e con poche risorse economiche delle vere emergenze sanitarie quali: la dipendenza da oppioidi, l’obesità e le malattie a carico del sistema cardio-circolatorio».

Cosa diresti agli italiani e ai lucani che vivono una apparente situazione di stabilità?

«Di continuare a mantenere alta l'attenzione e di mettere in atto quotidianamente tutti quei comportamenti che contribuiscono a rallentare la diffusione del virus. Non bisogna abbassare la guardia, purtroppo il virus non è stato ancora sconfitto e nonostante il numero dei contagi e dei pazienti in terapia intensiva, si sia abbassato di molto, non siamo ancora fuori pericolo e nuovi focolai possono emergere se non prestiamo attenzione».

Da professionista, cosa puoi dirci? Dobbiamo prepararci ad una seconda ondata in Italia?

«La seconda ondata è probabile, ma la portata e l'impatto che avrà dipenderà molto da come risponderemo sia come singoli cittadini che come comunità, sia a livello di comportamenti individuale che scelte politiche nazionali e locali. Abbiamo visto come la tempestività e le buone norme siano state fondamentali per l’arginare il problema in molte zone dell’Italia. In generale siamo più preparati e abbiamo una conoscenza maggiore del virus rispetto a gennaio/febbraio scorsi».

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