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Le scuole di scrittura, i pamphlet e Marguerite Duras

Le scuole di scrittura, i pamphlet e Marguerite Duras

Nel 2020, conclusisi i giorni degli ossessivi bollettini medici, delle reclusioni più o meno volontarie, si tornò a parlare di libri, e in particolar modo di pamphlet. Ne uscì uno a cura di Alfio Squillaci del titolo “Chiudiamo le scuole di scrittura” edizioni GOG, che metteva in luce come e quanto fosse cambiata la condizione e il ruolo della scrittura, e con essa dello scrittore, in questo paese.
Cose che la stessa pandemia aveva evidenziato in maniera drammatica.

La pandemia e i libri: il ritratto impietoso di un mondo in stagnazione
Era passati pochi giorni dall’inizio dell’epidemia, non ancora divenuta pandemia, che già si registrava un crollo vertiginoso nelle vendite dei libri.
Un fatto che non sfuggì agli editori e ai proprietari delle librerie italiane, che si trovarono, all’improvviso, con l'impossibilità di giustificare il costo di chi nelle librerie ci lavorava, ma anche l'esistenza dei libri stessi.
Perché?
Fino a quando qualcuno “ciondola” tra i libri, si presentano testi, con un occhio agli autori che riempiono i posti in sala, senza dovere troppo insistere con gli uffici stampa e i giornali, va bene. C’è l’alibi morale di occupare delle persone, e nello stesso tempo di offrire un servizio al paese.
Ma quando a fronte dell’ impossibilità a uscire di casa e di potere anche fare finta che i libri abbiano un mercato sterminato, il meccanismo rivela la sua stortura, diventa difficile porvi rimedio e continuare a prestare un servizio.
Quale servizio se il 90% dei libri prodotti dopo due mesi finirà al macero? Non è dato saperlo ma è quello che accade e che accadeva.
Una sorte migliore la loro, di quella che faranno i libri scontati a ridosso dell'uscita, gli autori in caso di ristampa non percepiranno niente.
Una bella fregatura cui gli autori si sottopongono volentieri, con l'illusoria speranza di trovare così tanti lettori da potere poi trattare, in seguito, un prezzo differente per il proprio lavoro.
Già fin qui la situazione è abbastanza complicata e poco adatta da affrontare per chi soffre con lo stomaco, in più aver reso "accessibile" a tutti la “carriera dello scrittore”, senza una formazione che serve, ha ulteriormente aggravato la situazione.
Vediamo come.

Le scuole di scrittura 
In Italia esiste un'unica scuola "accreditata" come scuola di formazione per aspiranti scrittori e un'altra per aspiranti editori. Mi fermo a queste perché sono le più note, poi ce ne sono tante altre che coprono diverse esigenze e diverse realtà.
L’intuizione di questa scuola di scrittura, mi interessa soffermarmi su questa perché è quella più radicata nel paese e nel suo immaginario culturale, è stata giusta se partiamo dal presupposto che si può imparare a scrivere, cosa che non basta, è bene sottolinearlo, e la realtà dei fatti lo dimostra ampiamente.
In America, paese di riferimento della suddetta scuola, per dare consistenza a questa esperienza, le scuole di scrittura sono una realtà fortissima e lo sono a livello universitario.
Negli Stati Uniti il cinema è stata una potente arma di importazione della democrazia, una grande industria, fondamentale per la tenuta del sistema. Avere anche degli “operai” della scrittura è importantissimo per dare consistenza alla realtà attraverso la finzione narrativa, che è altro dalla Letteratura e dal mercato, e questo gli americani lo sanno.
Torniamo in Italia e alla collocazione geografica della sua più famosa scuola di scrittura.

Dell'importanza della geografia politica ed economica
La scuola più famosa di scrittura avrebbe potuto trovare la propria collocazione naturale a Milano, se vogliamo tenere conto dell'industria editoriale italiana per come si è sviluppata o a Napoli, se teniamo conto di quella che era l'importanza dell’editoria scolastica napoletana per il paese, e invece la sede scelta fu Torino, perché mai direte?
Per “Il Salone del Libro”, per Einaudi?
No, accadde, semplicemente, perché in Italia il cuore economico del paese si trovava a Torino, quello antico, quello che ha condizionato anni di sviluppo economico e politico, cose che Goffredo Fofi scrisse negli anni ‘60 e che ancora oggi sono uguali ad allora.
Portare a Torino una scuola di scrittura voleva dire dare vita a una nuova coscienza culturale, voleva dire innalzare il livello di populismo, un populismo che trovava terreno fertile in Italia.
Il tarlo della sudditanza psicologica Nord vs Sud era stato instillato goccia a goccia, a partire dalle prime migrazioni in fabbrica, e chi sarebbe andato a Torino, con la speranza di poter entrare a far parte del mondo culturale italiano, ricevendo la patente di intellettuale/ operaio, avrebbe alimentato e diffuso questo "tarlo" in maniera più pervicace.
Così è stato.
La creazione della scuola non ha però allargato l’orizzonte degli italiani, a fronte di personale specializzato prodotto, né ha innalzato la media degli scrittori, i social hanno ulteriormente inasprito il gioco, volgarizzandolo.
Una polemica azzeccata, con un cospicuo numero di like, rende più facile pubblicare e accedere a premi blasonati. Tutte cose che cambiano la situazione finanziaria di un autore rendendolo non più operaio, ma che lo penalizzano da un punto di vista letterario, penalizzando anche i lettori.
Quindi la scuola di scrittura è diventata un monolite compatto, monolite che viaggia con i giornali, le fabbriche il calcio, il sistema Italia per intenderci, un sistema formato da gregari più che da leader, a tutti i livelli.
Non tornerà più "l'era del cinghiale bianco", e se è troppo poco qualcuno dovrà rassegnarsi a morire da travet.
La peggiore condanna per uno scrittore o se preferite di più per un intellettuale, anche e soprattutto operaio.
Da qui il pamphlet di Alfio Squillaci.
Eppure io ho iniziato il mio percorso lavorativo frequentando una scuola di scrittura, perfezionandolo quel percorso con altri corsi, compreso un Master, per approdare poi al giornalismo.

I laboratori di scrittura servono?
È una domanda interessante, che merita una risposta.
La scuola italiana non insegna a scrivere, e cioè non insegna a sfrondare l'inutile e lo scudo che ognuno di noi utilizza per proteggersi, grazie alle parole. La scuola, se funziona, insegna la grammatica, di più non riesce a fare, e te ne accorgi dall'enorme quantità di parole lanciate dappertutto, senza coscienza di sé e senza verso. Tutte cose che poi convergono in libri privi di utilità, da un punto di vista della costruzione del sé e quindi del mondo.
In Italia poi, dove sapere scrivere è ancora legato al possesso di un titolo di studio, che non garantisce la solidità e l'anarchia di uno scrittore, un giornalista di professione, è una fissazione.
E quindi vanno benissimo i laboratori di scrittura, a patto che chi li conduce non si senta mosso dal padreterno e che chi li frequenta voglia finalmente imparare a scrivere.
E quindi la scuola di scrittura serve, ma serve come base di partenza per imparare a misurarsi con questo mondo oscuro che regala luce a patto di imparare a gestirsi , e imparare a dare importanza alla consapevolezza di sé, allo studio, al confronto e all’accudimento della propria solitudine.
Marguerite Duras ha scritto alcune delle riflessioni più profonde sulla solitudine della scrittura nel suo libro "Scrivere" pubblicato da Gallimard nel 1993.
Ecco un passo piuttosto lungo e intenso, uno dei più celebri in cui lei affronta proprio questo tema:
«La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale la scrittura non si fa, o si fa senza forza. È una solitudine che non si somiglia a nessun’altra.
Si è soli, dentro qualcosa che non ha eguali: la scrittura.
Non si è mai soli quando si scrive, ma si è soli attorno alla scrittura.
Si può essere accompagnati, amati, circondati, non importa: la scrittura è un atto solitario.
Si è soli quando si scrive, si è soli come lo si è davanti alla morte.
E, come la morte, questa solitudine è terribile, sì, ma è anche una cosa essenziale. È da essa che nasce la scrittura, è da essa che viene la voce.
È nella solitudine che si sente, finalmente, la materia della scrittura, quella che non appartiene più a nessuno.
Si è soli, e tuttavia è in quella solitudine che qualcosa di universale si apre, che si comincia a toccare l’altro, gli altri, il mondo intero.»
La Duras definisce la scrittura come un atto di isolamento assoluto, ma anche come un’apertura al mondo. Solo nella solitudine più radicale lo scrittore riesce a raggiungere una verità che riguarda tutti, un laboratorio di scrittura può aiutare a comprendere tutto questo, che è necessario e importante, con buona pace dei pamphlet.

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