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Intervista

Dal cuore della Basilicata ai laboratori d’Europa: il viaggio di Pietro Gravino nella fisica delle società democratiche

La sua Tursi lo ha spinto a cercare risposte nei numeri e nell’infosfera. Ecco come la fisica può diventare uno strumento per capire la disinformazione, la democrazia e il comportamento umano

Dal cuore della Basilicata ai laboratori d’Europa: il viaggio di Pietro Gravino nella fisica delle società democratiche

Da Tursi a Bruxelles, passando per Parigi, ma anche Roma e Bologna. Non è il tour proposto da un’agenzia di viaggi, ma le principali città in cui ha vissuto Pietro Gravino, fisico per formazione e ricercatore per professione. Abbiamo toccato vari temi nel corso della mia prima “videointervista”, partita con qualche difficoltà tecnica e proseguita per circa un’oretta tra i rispettivi appartamenti di Bruxelles e Milano, in orario aperitivo, di un venerdì pomeriggio.

Partiamo dall’introduzione del suo profilo Linkedin ed in particolare da questa frase: “Il mio obiettivo principale è contribuire a una scienza delle e per le società democratiche”. In che modo la scienza riesce a diventa concreta e a perseguire l’obiettivo che lei si è dato?
«È una domanda che mi fanno molto spesso perché sembrano due mondi molto distanti anche se, in realtà, non lo sono così tanto. Io mi sono formato in una branca della fisica che si chiama “Fisica Statistica” e quello che fai all’inizio è studiare il moto di tante particelle che formano, ad esempio, un gas. Se non si muovono tanto, allora il gas cambia di stato e diventa liquido invece che gassoso. Tutte queste cose le studi guardando non le singole particelle, che sono tantissime, ma le proprietà statistiche, come per esempio l’energia cinetica media. Puoi usare le stesse tecniche per studiare, ad esempio, una popolazione di individui di una società; puoi vedere quali sono le proprietà medie, ma anche altri tipi di caratteristiche statistiche che diventano interessanti a seconda del fenomeno da analizzare. Quando ad esempio studi la demografia, stai facendo delle statistiche di una popolazione. Quando invece esamini fenomeni un po' più complessi come le dinamiche di opinione, che sono il mio soggetto di studio, allora gli strumenti della fisica statistica diventano molto utili. In particolare, il ramo della fisica in cui mi sono specializzato, che si chiama “Fisica dei Sistemi Complessi”, si è sviluppato per studiare questi fenomeni».

Se dovesse spiegarci qual è la sua giornata lavorativa, cosa direbbe?
«La mia linea di ricerca si chiama “Infosfera”; è un termine coniato di recente e riguarda l’ambiente virtuale delle informazioni. Quello che cerco di fare è studiare questa dinamica, questo sistema e capire come possiamo intervenire per farlo funzionare meglio. Ci sono tanti problemi legati, ad esempio, alla disinformazione, alla polarizzazione, all’hate speech. L’umanità in questo momento storico ha potenzialmente accesso alla più grande mole di informazioni della storia, eppure non sembra che il modo in cui prendiamo le decisioni, sia a livello individuale che collettivo, sia tanto meglio di prima. Possiamo migliorare molto su questo aspetto ed uno dei modi in cui possiamo farlo è intervenire sulla tecnologia».

Dopo l’esperienza accademica lei è passato al mondo corporate. Vuole darci qualche dettaglio in più sulla sua azienda?
«Lavoro al “Sony Computer Science Lab” che ha 5 sedi, di cui 2 in Europa e le altre sparse per il mondo. Quelle in Europa sono a Parigi, dove lavoro io, e a Roma, dove vengo spesso. Lo scopo di questo laboratorio è abbastanza distante dalle esigenze commerciali immediate; è quasi un laboratorio accademico perché si trattano tematiche di altissimo impatto sociale o tecnologico, e si cerca di immaginare il futuro. Ci sono varie linee di ricerca, anche molto eterogenee, perché l’idea di fondo è di esplorare direzioni nuove e diverse e ciò che le accomuna è “pensare avanti” soprattutto per cose che hanno un profondo impatto sociale».

Dal punto di vista accademico, lei si è formato in Italia tra due università pubbliche: la Sapienza di Roma e l’Alma Mater Studiorum di Bologna. La preparazione ricevuta in Italia le è bastata per stare al passo con un contesto internazionale come quello in cui lavora?
All’estero noi italiani veniamo ritenuti molto bravi e troviamo lavoro con una certa facilità. Il che fa ridere, ma è un riso amaro. Il Paese investe sulla nostra formazione universitaria, permettendoci di pagarla poco rispetto ad altre nazioni, come ad esempio gli Stati Uniti, però il ritorno di questo investimento scompare in quanto, non trovando sbocchi professionali in Italia, siamo costretti ad andare via.

Volendo portare il discorso su un contesto regionale, noi siamo due lucani ma ci stiamo collegando da Milano e Bruxelles, le rispettive città d’adozione. Andare via, per lei, è stata una costrizione o lo avrebbe fatto a prescindere perché aveva voglia di scoprire il mondo?
«Penso che siano sempre tutte e due le cose. Nella mia fattispecie, io feci l’università prima a Roma e poi a Bologna più che altro per scelta perché, ad esempio, avrei potuto farla a Potenza, ma decisi di andare a Roma e questa è stata la mia prima migrazione, fatta per motivi personali. Anche andare poi all’estero è stata una scelta ma dettata pesantemente dal fatto che avevo raggiunto il limite di assegni di ricerca che, all’epoca, era possibile fare con le università italiane. Non c’erano alternative e quindi ho dovuto accettare un’offerta che in quello stesso periodo, per combinazione, mi è stata fatta e così sono andato a Parigi. Devo ammettere che l’ho fatto un po' a malincuore e con l’idea, all’inizio, di tornare. Quando però questa possibilità si è concretizzata perché è stato aperto il laboratorio della Sony a Roma, per motivi personali ho deciso di non tornare».

Lei attualmente vive a Bruxelles, che è un po' il simbolo dell’Europa, essendo la sede di tante istituzioni. Cosa significa vivere lì in un momento storico così complesso per il nostro continente?
«Sono qui da un paio d’anni. Il mio lavoro non mi porta direttamente a contatto con le istituzioni europee se non attraverso il tema della mia ricerca che è qualcosa di cui le istituzioni cercano di occuparsi: la disinformazione, le campagne di propaganda che arrivano dall’estero, il diritto di parola ed opinione e la difesa dei giornalisti sono tutte tematiche su cui l’Unione Europea si spende. Anche se si può discutere molto sull’efficacia di questo sforzo. A parte questo, c’è da dire che Bruxelles è una città molto particolare perché circa il 60-70 per cento della gente vive qui per via delle istituzioni europee, della Nato o di altri organismi internazionali, quindi, anche non volendo, entri a contatto con questa categoria di persone. Sono tutti molto interessanti e preparati, però in questo momento storico c’è, in generale, pessimismo e negatività su quella che è l’importanza dell’istituzione perché ti accorgi che, su scala mondiale, non siamo importanti. Questo genera molta insoddisfazione però è anche frutto di una serie di scelte che sono state fatte negli anni in cui si pensava che avrebbero contato più le regole che la forza. In questo momento, però, in cui il diritto internazionale passa in secondo piano e “si applica fino ad un certo punto” (cit.), ti rendi conto che purtroppo non basta più avere delle buone regole e cercare di rispettarle.

Proviamo a tornare indietro nel tempo e parliamo di com'è nata la sua passione per la fisica. Era un interesse che aveva già da bambino?
«Questa è la parte dell’intervista in cui bisognerebbe coinvolgere mia madre perché non ricordo cosa volessi fare da bambino (ride), però lei mi ha sempre raccontato che da piccolo avevo scritto un bigliettino con tutti i mestieri che avrei voluto fare. Erano tantissimi e non solo scientifici ma nella lista c’era anche l’inventore, quindi un po' di scienza e tecnologia c’erano già. Una delle cose di cui sono più fiero della mia vita è che a un certo punto, un paio d’anni fa, ho fatto un brevetto che in sé non è molto importante, però quando presenti un brevetto, dopo il nome della compagnia ecc., c’è scritto “nome dell’inventore” ed è lì che ho dovuto firmare … quindi sono ufficialmente inventore!».

Visto che ha nominato Tursi, qual è il tratto della “tursitanità” ed in generale della “lucanità” in cui si riconosce maggiormente?
«Sai come si dice, no? Che puoi togliere il ragazzo dal villaggio, ma non puoi togliere il villaggio dal ragazzo ed in effetti è vero perché ci sono delle cose che, nel bene e nel male, mi porto dentro sempre, come tutti quelli che vengono dalla nostra terra. Per esempio, siamo molto testardi e molto orgogliosi. Parlo di Tursi, ma penso si applichi anche a molti altri posti della Basilicata. Siamo molto ospitali e siamo persone che quando tengono a qualcuno o a qualcosa, vanno fino in fondo. Siamo anche molto concreti e, per uno scienziato, questo aspetto è utile perché a volte è facile perdersi in discorsi metafisici, teorie super sofisticate, però poi, ad un certo punto, bisogna andare al dunque. In quei momenti, nella mia testa compare una voce che mi dice in dialetto: “… e mo? Quindi?”. Questa semplicità, che però non è naif ma è più un desiderio di concretezza, è molto importante e mi è utile sia nel mio lavoro sia nella vita di tutti i giorni».

C’è qualcosa (persona, piatto, posto) della Basilicata o di Tursi che le manca e che, al contrario, quando torna, la fa sentire a casa?
«Ti dico due cose, anche se la prima, in realtà, non mi manca perché me la faccio spedire ed è “u savzizz ‘nda nzugn”. La spedizione è complicata ma mia mamma è bravissima a fare i vasetti».

Come spiega e traduce, soprattutto all’estero, il cibo in questione?
«Salame semistagionato conservato nello strutto fuso in cui è stato previamente fritto”. Ovviamente piccante. Adesso ormai ho costruito la mia vita fuori dall’Italia e per fortuna non è più così però i primi tempi a Parigi conoscevo poca gente, pioveva sempre e a volte mi prendeva un po' di malinconia. Per riprendermi, mi facevo le uova “cu savzizz anda nzugn” e mi risollevavo morale e colesterolo. La seconda cosa di cui sento la mancanza, invece, è un posto di Tursi a cui ripenso spesso: il castello che si trova all’apice della “Rabatana” (ndr è il quartiere più antico di Tursi ed il nome deriva dalla parola araba “rabat” o “ribat” che in arabo significa appunto “borgo”). Noi continuiamo a chiamarlo così ma il castello, in realtà, da anni non c’è più perché indicativamente negli anni ’70 era stato buttato giù in quanto ritenuto pericolante. Cosa surreale ma è ancora più surreale il fatto che continuiamo a chiamare castello quell’area che adesso è una grande piana dove è rimasto solo un basamento della torre. Il fatto di continuare a chiamare nello stesso modo un posto che non esiste più mi fa pensare alla perdita di qualcosa che però non si vuole lasciar andare, ad un’assenza che si fa presenza.

Questa sua riflessione mi riporta al “V per Vito”, il contesto in cui ci siamo conosciuti e che a breve, il prossimo 21 novembre, organizzerà un concerto a Roma. Trattandosi di un argomento delicato e personale, decida lei se ne vuole parlare anche in questo spazio ed aggiornarci sulle attività in cui l’associazione è coinvolta.
«Certo che ne parlo. Tecnicamente è un’Associazione di Volontariato, iscritta all’albo delle ONLUS, che promuove diverse iniziative, principalmente di tipo musicale e sportivo. Per impegni lavorativi, sia miei che di mia sorella, abbiamo smesso di organizzare il concerto a Tursi. In realtà, proprio grazie all’esperienza maturata nell’organizzazione dei concerti del “V per Vito”, lei ha conosciuto il mestiere della “tour manager” e ha deciso di farne una carriera, e sono molto fiero del suo successo. Abbiamo però continuato a organizzare il concerto a Roma, il prossimo si terrà il 21 novembre, perché è logisticamente molto più semplice in quanto tanti artisti sono romani ed è più facile anche per noi familiari incontrarci a Roma. Quest’anno per la prima volta non sarà organizzato da me o da mia sorella ma da altri soci del “V per Vito” che si sono prestati a farlo, e che ringrazio. Sul territorio di Tursi continuiamo ad essere presenti attraverso altre iniziative soprattutto in collaborazione con l’associazione “Atletica Amatori Tursi”, in cui mio padre era attivo da prima che nascessi. (ndr l’associazione “V per Vito” nasce in memoria di Vito Gravino, il fratello di Pietro, grande appassionato ed esperto di musica».

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