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Grandi classici: Cesare Garboli, «un uomo pieno di gioia»

Grandi classici: Cesare Garboli, «un uomo pieno di gioia»

La Letteratura, e il mondo tutto che le gira intorno, è un mondo conflittuale e problematico. La scrittura non è una vena inesauribile, e come tutti i lavori manuali ha i suoi momenti di stanca, i suoi strappi, le frenate improvvise, soprattutto se chi scrive ha una voce, e non è solo un nome che cammina al di là di ciò che produce.
Per questa ragione, in questo contesto, più che dall’amicizia i rapporti sono tenuti insieme dal filo di ferro dell'ipocrisia, per la paura che perdendo, per un attimo, la capacità di usare la mano come un bisturi o come una carezza di maniera, poi, si rimanga indietro per sempre, e per questa ragione è necessario blandire chi è ben ancorato.
Non si sa mai.
E così si consuma il tempo di chi scrive, al punto che diventa necessario costruire rapporti che non la scrittura, ma la consuetudine umana comprendano, per evitare di inaridire e di non scrivere mai più: serve riuscire a intercettare un altro uguale, che accolga il proprio lavoro di scrittura come se fosse il suo.
È quello che è accaduto ad Antonio Delfini che ha trovato in Cesare Garboli un custode fedele e non acritico delle sue opere. Un fatto che appare evidente leggendo “Un uomo pieno di gioia” , pubblicato nel 2021 da Minimum Fax, e che mette in luce innanzitutto la serietà di Garboli, che di Delfini riesce a evidenziare il meglio, senza che questo meglio venga inficiato da una stucchevole benevolenza, benevolenza che renderebbe vano il lavoro di qualsiasi autore. Lo appesantirebbe facendolo annegare nel dolce, un dolce che porta dritto dritto al diabete e alla necrosi.
L’amicizia tra Delfini e Garboli fu un’amicizia di quindici anni, per la prematura scomparsa di Delfini, anche se appare essere molto più lunga e profonda, come quelle amicizie che nascendo da bambini, in maniera istintuale, rappresentano delle vere e proprie investiture inossidabili.
Quando nel 1982 Einaudi pubblicò i “Diari” di Delfini fu Garboli a scriverne la prefazione. Una prefazione che se fosse stata solo un tributo servile, oggi, non sarebbe stata ristampata come libro a sé. Cosa che ha fatto Minimum Fax, tanto più che era una prefazione di quarantasei pagine, e quindi una prefazione che aveva il compito di riuscire a fare accogliere il corpo di parole di Delfini, in maniera leggera ed esatta, così da potenziarne l'eco, evitando il più possibile di farlo precipitare nel mare magno della dimenticanza. Un oblio che Garboli non voleva per Delfini proprio perché apprezzandone le doti cercava di istradarne l'opera, da critico abile e appassionato, quale era, prima di essergli amico.
Del resto Delfini era morto e sarebbe stato molto più che deleterio scrivere di lui in maniera tronfia, in virtù della loro consuetudine umana, Garboli scelse la strada dell’onestà.
Quello che ne venne fuori è un ritratto dell'autore modenese, ritratto che aveva il pregio di scavare in maniera avvolgente e densa, una vera grande virtù di Garboli.
È un piccolo gioiello "Un uomo pieno di gioia", ed è un libro che, in questo caso, trova in Emanuele Trevi, il traghettatore intelligente così da potenziare ulteriormente la bellezza e la lettura di queste pagine.
Emanuele Trevi contestualizzando la prefazione di Garboli ai “Diari” di Delfini fa da cerniera al loro mondo. Un mondo amicale e letterario distantissimo dal nostro. Lo fa in maniera impeccabile, rimettendo al centro la scrittura, evidenziando la bravura di entrambi, senza per questo fare il fenomeno ma avvolgendo i due autori con le parole. Come sempre dovrebbe essere e come non è quasi mai.

«Il Delfini di Garboli è la perfetta incarnazione di ciò che aveva definito “sacro”. Ma accusare Garboli di privilegiare “l'uomo” sull' “opera” significa solo agitare delle astrazioni insignificanti. Quello che è vero, è che a Garboli della letteratura, intesa come fatto astrattamente estetico e catena di produzione di testi, non importava proprio nulla. La sua, ricordiamoci, era un’epoca dominata dall'idea che si potesse concepire una specie di “ scienza della letteratura”, con il suo gergo tecnico – linguistico di scoraggiante aridità. […] A partire proprio dal ritratto di Delfini, e ancor più dal grande lavoro biografico del 1985 su Giovanni Pascoli, la posizione di Garboli divenne giocoforza quella del bizzarro e dell’eresiarca. Si fece molti nemici, e anche certi amici ci tenevano sempre ad avere qualcosa da ridire. […] Ciò che più conta, è che Garboli non ha mai rinunciato alla sua vocazione fondamentale, che era quella del critico, dell’interprete di libri e di opere d’arte. Era là, in un mondo oggettivo di fatti e persone reali, che aveva individuato il suo paesaggio narrativo, e non nell'invenzione romanzesca.»
A questo punto la ripubblicazione nel 2022 de i “Diari” di Delfini, da parte di Einaudi, ha il gusto della stratificazione del vivere, del piacere, del giocare alla perdita di tempo, perdita di tempo intesa come modo per conoscere il mondo e se stessi.
Un incantesimo, incantesimo che è quello proprio della scrittura.

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