IL MATTINO
ultime notizie
28.11.2025 - 18:22
Non sorprende, allora, che la Basilicata sia tra le aree del Sud che maggiormente soffre un massiccio e allarmante spopolamento. L'inverno demografico è solo una naturale e biologica conseguenza. Il predominio del terziario segnala una debolezza strutturale e poca ambizione. I servizi — commercio, amministrazione, assistenza alla persona, turismo — sono una componente preziosa dell’economia, ma non possono rappresentare l’unica gamba su cui far camminare una regione. Senza una base produttiva solida, il risultato è inevitabile: i talenti fuggono, il territorio si impoverisce e l’orizzonte per chi resta diventa sempre più stretto. La crisi dell'automotive in uno degli stabilimenti più grandi d'Europa spaventa intere generazioni di operai da Melfi, ad Atella, passando per Filiano, Pietragalla, Rionero, Avigliano, Ruoti e così via, con il mutuo da pagare e tante speranze per il futuro. Le prospettive per chi ha un titolo di studio sono poche, raramente attrattive, scarsamente valorizzanti e spesso circoscritte a piccoli ambiti e i collegamenti tra i vari territori della regione sono insufficienti per garantire un vero sviluppo per le piccole imprese che faticano a decollare e ad aprirsi al mercato. Il petrolio non ha affatto trasformato la Lucania nell'ottavo Stato degli Emirati. Viggiano e Corleto Perticara, la Val d'Agri e la Valle del Sauro non sono propriamente un modello virtuoso di sviluppo, nonostante la straordinaria ricchezza del sottosuolo. L'Unibas da Potenza a Matera non riesce a catalizzare un adeguato numero di studenti lucani ed extralucani. Una questione di attrattività? Forse.
Il terziario, in questo contesto, rischia di diventare un palliativo più che un volano: un tappeto che copre le crepe, senza colmare il vuoto produttivo. Non è una questione nuova. Per Francesco Saverio Nitti, uno che di certo non ha bisogno di presentazioni, la Basilicata, come gran parte delle regioni del Mezzogiorno, era segnata da un grave ritardo nello sviluppo economico rispetto al resto d'Italia, aggravato dalla carenza di infrastrutture moderne, da un’agricoltura povera e arretrata spesso caratterizzata da una gestione feudale della terra e dalla mancanza di una vera industria. La "questione meridionale", per Nitti, era un problema radicato nelle strutture sociali ed economiche che impedivano ogni forma di crescita e modernizzazione, da una scarsità di capitale e da un’economia dipendente dalla tradizione e non dall’innovazione. Nitti teorizzava un forte impegno da parte dello Stato centrale, ma anche una forte reazione delle classi dirigenti locali, che dovevano uscire dalla logica assistenzialista, che oggi potrebbe essere tradotto nella politica dei bonus, per promuovere un vero processo di emancipazione economica. Il concetto di "cultura industriale" che Nitti proponeva non era solo legato alla presenza di impianti industriali, ma includeva una serie di fattori: la mentalità imprenditoriale, l’organizzazione del lavoro, l’innovazione tecnologica, la capacità di progettare e gestire attività produttive complesse, sottolineando come il Sud Italia fosse stato vittima di una "colonizzazione" economica, con investimenti esterni che non contribuivano a sviluppare una cultura imprenditoriale locale. Invece di promuovere la nascita di piccole e medie imprese autoctone, il modello economico che si era imposto aveva creato un’economia dipendente dall’intervento dello Stato e da investimenti di capitali esterni. Parole, a distanza di oltre un secolo, ancora attualissime.
Il suo sogno era chiaro: un Mezzogiorno industrializzato, infrastrutturato, dinamico. Un Mezzogiorno capace di generare ricchezza, lavoro, crescita. Oggi, invece, una Basilicata dove il terziario ha superato l’industria appare come un territorio incompleto, amputato: perché una regione senza o con poche imprese è una regione senza futuro. Il confronto con il Nord è inevitabile. Basti pensare al Veneto, spesso indicato come la culla delle piccole e medie imprese italiane, realtà familiari cresciute grazie a competenze, ambizioni, sacrificio, duro lavoro, capitale sociale e spirito imprenditoriale diffuso. È da quel modello che arrivano alcune delle realtà più interessanti del Paese e che incidono su molti indicatori: competitività, occupazione stabile, export, innovazione, tenuta demografica. Dove ci sono imprese forti, ci sono comunità forti. Dove c’è produzione, c’è futuro. Ed è proprio ciò che nel Mezzogiorno, e in Basilicata in particolare, continua a mancare. I dati del 2025 e l’eredità storica di Nitti non devono essere sottovalutati: serve una strategia coraggiosa che punti a ricostruire un tessuto industriale oggi troppo fragile. Occorre investire nella formazione tecnica, sostenere l’imprenditoria, le partite iva, facilitare l’accesso al credito, valorizzare chi vuole produrre e innovare, creare filiere strategiche e moderne. Il terziario è indispensabile. Ma da solo non basta. Serve industria. Serve visione. Serve futuro.
edizione digitale
Il Mattino di foggia