IL MATTINO
la riflessione
28.08.2025 - 19:37
In questi giorni, l’indignazione corre veloce sulle tastiere, si fa voce collettiva e rabbia condivisa. La chiusura del gruppo Facebook “Mia Moglie” – dove per anni sono state pubblicate spesso senza consenso foto intime di donne, quasi sempre accompagnate da commenti volgari, osceni, svilenti – ha scoperchiato un vaso che da tempo bolliva. Un vaso dove l’anonimato, la complicità tossica e la goliardia malata hanno dato vita ad una piazza virtuale in cui il corpo femminile veniva esibito, sminuito, deriso. Dietro ogni scatto c’era una storia non raccontata: mogli ignare, compagne tradite, fidanzate trasformate in trofei. La gogna digitale non è nuova ai social, ma quando diventa sistemica, strutturata, quando si trasforma in un circo dell’umiliazione con decine di migliaia di partecipanti, allora la questione si fa seria. Diventa strutturale e culturale. Mentre la cronaca ci racconta l’ennesimo e purtroppo non l'unico capitolo della disumanizzazione al tempo dei social, dall’altra parte dello stesso oceano digitale e a pochi clic di distanza, si muove, silenzioso e intenso, un gruppo completamente diverso: si chiama "Malati oncologici". Un nome semplice, diretto, crudo, che racconta già tutto, senza edulcorare e che al suo interno cela la parte più luminosa del web. Oltre 5.000 persone riunite non per deridere, ma per sostenere. Non per esibire, ma per condividere. Nessuno scandalo, nessuna morbosità. Solo vite vere. Dolori autentici. Parole che sono carezze, o a volte pugni, ma mai giudizio. Un gruppo che sembra l’antitesi esatta di quello chiuso per vergogna. Un luogo dove il corpo non è esibito, ma curato. Dove la vulnerabilità non è occasione di scherno, ma di contatto profondo. Qui, ogni post è un frammento di esistenza che cerca senso: la madre che affronta la seconda recidiva, il giovane medico che con parole semplici spiega la chemio, il seminarista che indica la via della preghiera, il volontario che descrive la meravigliosa esperienza del servizio civile in un reparto di degenza. C'è Marina che scrive: “Ho avuto la diagnosi di un adenocarcinoma raro, mi causa molti dolori e la chemio ha poche possibilità. Ma non devo mollare di un centimetro”. C'è Francesca che offre la sua competenza con umiltà disarmante: “Sono laureata in Scienze Filosofiche con una tesi sul supporto al paziente oncologico. Sono a disposizione gratuitamente per chi ha bisogno di ascolto durante il percorso.” C'è Giorgio che con parole semplici ma potentissime, scrive: “Il tumore ti cambia. Vedi cose che prima davi per scontate, ora niente è scontato. Siate orgogliosi di voi stessi: siamo vincitori della morte e gloriosi della vita!” Ci sono figli che raccontano di padri che non ce l’hanno fatta, ma anche genitori che piangono un figlio adolescente e chi ringrazia sconosciuti per un consiglio, una parola, un “non sei solo”. C'è chi ha vinto il nemico, mostrando con orgoglio le cicatrici fisiche di una rinascita che passa dalle picole cose. Ogni post è un respiro condiviso, una mano tesa, una confessione senza vergogna. A volte si chiede aiuto, a volte lo si offre. Tutti ascoltano. Tutti imparano. È lo stesso social. Ma è un altro mondo. Ed è su questo paradosso che dovremmo soffermarci. Perché i gruppi online sono specchi dell’umanità: ne riflettono il meglio e il peggio, amplificano la voce dell’empatia o del cinismo, costruiscono o distruggono. Non sono buoni o cattivi in sé. Siamo noi a dargli direzione. Siamo noi a decidere se usarli come strumenti di connessione o come armi di umiliazione. Il gruppo “Mia Moglie” non è stato solo un luogo degradante: è stato una prova evidente di quanto sia ancora radicato un certo modo di vedere le donne come oggetti, di considerare il corpo altrui una proprietà da esibire. Eppure, nella stessa rete che sa farsi trappola, può nascere anche la cura. I gruppi a volte possono essere rifugi. Possono diventare case. Possono anche diventare cortili violenti, certo. Ma non è una condanna: è una scelta. Una scelta quotidiana, personale e collettiva. L’indignazione è necessaria, ma non basta. Serve anche il riconoscimento del valore di ciò che funziona, di ciò che ci salva. E quel gruppo fatto di pazienti, ex pazienti, familiari, medici e volontari è un esempio raro di come la sofferenza, la paura, il dolore, se accolto, può generare bellezza. I gruppi social, quindi, sono una terra di mezzo. E come tutte le terre di mezzo, portano con sé rischi e possibilità. La rete può essere nido o trappola. Può essere specchio o fossa. Dipende da noi.
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