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Il caso

La Statale 106 e il sermone da cattedra sul paesaggio: Roseto Capo Spulico tra Federico II e Webuild, la narrazione stanca di Montanari

Dove i lucani e i pugliesi vanno al mare, c’è chi vede solo un futuro coloniale e chi legge un’infrastruttura europea. In mezzo resta il paesaggio, che non ha bisogno di sermoni ma di scelte

La Statale 106 e il sermone da cattedra sul paesaggio: Roseto Capo Spulico tra Federico II e Webuild, la narrazione stanca di Montanari

All’alba, a Roseto Capo Spulico, il piazzale sotto il castello si riempie di targhe pugliesi e lucane. Famiglie intere scendono con le borse da mare. Dal bar arrivano l’odore di cornetti e le voci in dialetto di Policoro, di Bari, di Matera. È la stessa scena ogni estate: il paese, che d’inverno vive lento e silenzioso, si trasforma in una piccola capitale turistica dell'alto Ionio. Qui vengono a prendere fiato gli operai della Fiat di Melfi, gli insegnanti e gli impiegati di Potenza, i pensionati di Bari. Roseto è il loro rifugio, il castello federiciano il loro orizzonte, la statale 106 la porta d’ingresso obbligata. Sulla costa ionica della Calabria c’è un luogo che pare uscito da un dipinto: un promontorio che affonda nel blu, un castello federiciano che da secoli guarda il mare come un guardiano di pietra. E proprio lì passa l’Italia che si interroga su cosa sia progresso e cosa sia scempio. È bastato un articolo indignato, firmato Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano, per trasformare un cantiere in un’allegoria nazionale: la Statale 106 come cicatrice, il castello come vittima, la Calabria come colonia da sacrificare. Una narrazione che appare potente, ma anche comodamente semplificata. Perché a guardarla da vicino, la storia è tortuosa come l'attuale Statale 106. Montanari scrive che «tutti i governi degli ultimi dieci anni» hanno voluto il «mostro». Ma la cronologia non si piega ai titoli facili. Il Megalotto 3 della Statale 106 prende forma nel 2007, quando il governo di Romano Prodi approva il progetto preliminare al Cipe. Poi passano anni, governi, delibere: la prima tratta riceve l’ok nel 2016, la seconda nel 2018. Non un colpo di mano improvviso, ma un iter che attraversa stagioni politiche diverse, incollato alla Legge Obiettivo come tante altre grandi opere italiane. Certo, il fatto che tutti abbiano firmato la staffetta, da destra e da sinistra, può sembrare la prova di un sistema cieco. Ma ridurre tutto a «gli ultimi dieci anni» è una comoda scorciatoia. L’altro refrain è quello della deviazione «per la presunta presenza di gas». Le indagini geologiche hanno rilevato metano nel sottosuolo lungo il percorso montano. E il metano non è una suggestione letteraria, è un rischio tecnico. Scavare in un terreno con sacche di gas significa moltiplicare i costi, complicare la sicurezza, rallentare l’opera. È questo che ha spinto i progettisti a ripensare il tracciato. Non è un alibi dei costruttori, ma un dato che sta nei documenti. Che poi la nuova soluzione possa non piacere o non sia perfetta, è un altro discorso. Ma trasformare il metano in una leggenda da romanzo gotico è roba buona per un comizio in piazza, non per un’analisi tecnica. E raccontarla come furbata «presunta» serve solo a costruire un nemico. Il professore liquida le valutazioni di impatto ambientale come «timbri» inutili. È una caricatura. Nel 2016 il Cipe approva la prima tratta e rimanda la seconda a revisione. Nel 2018, dopo modifiche, arriva l’ok definitivo anche per Roseto Capo Spulico. La Regione Calabria documenta le varianti: si passa da una bozza del 2017 a un progetto 2018 con tavole aggiornate. Se fosse stato un timbro, non ci sarebbe stata revisione, né ritardi, né prescrizioni. Invece le carte raccontano che la macchina burocratica, lenta e contraddittoria, ha comunque inciso. Altro che timbrificio: qui la burocrazia ha fatto quello che sa fare meglio, ovvero perdere tempo. Altro topos: «Auto che sfrecceranno su piloni a pochi metri dalla spiaggia». Una frase che evoca un viadotto da Benidorm anni ’70. Ma le planimetrie parlano d’altro. L’attraversamento di Roseto è pensato con due gallerie naturali (Roseto 1, 1,2 chilometri; Roseto 2, 290 metri) e con viadotti puntuali. Sono strutture invasive, certo, ma non un lungomare sopraelevato. Alcune gallerie artificiali sono progettate per ripristinare la morfologia superiore: coperture verdi, percorsi locali ricuciti sopra. Non è il paradiso, ma nemmeno la passerella sul mare evocata dal giornalismo indignato. Montanari parla di «futuro vecchio», di «colonialismo». Immagini forti, che sembrano scritte col calamaio. Ma il Megalotto 3 non nasce come stravaganza calabrese: è parte del corridoio europeo E90, della rete Ten-T, della dorsale ionica che dovrebbe cucire Puglia, Basilicata e Calabria alla dorsale tirrenica. È un’infrastruttura di rete, non un favore agli imprenditori. Si può discutere sull’opera, eccome. Ma chiamarla «futuro di serie B» senza collocarla in questo quadro è un esercizio di retorica più che di analisi. Il passaggio più teatrale è il paragone con la Tirrenica. In Toscana il progetto è bloccato, in Calabria no. Perché? Perché a Capalbio vanno in vacanza i potenti, a Roseto no. Sembra il copione perfetto: ricchi protetti, poveri sacrificati. Ma la realtà è meno da romanzo sociale. La Tirrenica è ferma da decenni per motivi tecnici, economici, contenziosi infiniti. Paragonare i due casi significa ignorare la differenza dei contesti, dei vincoli, delle carte. Altro argomento: gli stessi costruttori del Ponte sullo Stretto. È vero: Webuild (ex Salini Impregilo) è il general contractor del Megalotto 3 e guida anche il consorzio Eurolink per il Ponte. Ma che il player sia lo stesso dice più sul mercato italiano delle grandi opere - dominato da pochi colossi - che sulla bontà o meno del progetto. Non è un marchio di Caino. Montanari si scandalizza per una pagina pubblicitaria con scritto: «In Calabria, il futuro si fa strada». Il claim esiste ed è usato da Webuild. Che le imprese si facciano pubblicità non è notizia, semmai è prassi. Quello che manca, in fondo, è la dimensione tecnica. Le varianti del 2017-2018 sul tracciato di Roseto, che hanno ridisegnato il passaggio sotto il castello. Le prescrizioni che obbligano a monitoraggi e ripristini. La questione geologica del gas, trattata con sufficienza. Il vincolo paesaggistico, reale, che ha spinto a usare gallerie e viadotti invece di stendere asfalto continuo. Tutto questo resta fuori dall’articolo, sacrificato sull’altare della grande metafora del «Sud colonia». Il castello resta lì, bellissimo e per nulla fragile. Il paesaggio è davvero unico ed è vero che ogni colata di cemento in Calabria pesa come una colpa collettiva. Ma se vogliamo raccontare la Statale 106, non basta evocare Federico II e il «volto amato della Patria». Qui la questione è come bilanciare una grande opera europea con la tutela di un luogo incantato. Come rendere trasparenti le sezioni del progetto, come controllare i ripristini, come far sì che i viadotti non diventino cicatrici ma passaggi invisibili. Il giornalismo indignato servirà al massimo a scaldare qualche cuore. Ma non basta a capire. Perché la Calabria non è un presepe immobile da difendere a colpi di metafore: è una terra che viaggia, che ha bisogno di strade. E forse la vera immagine di Roseto è questa: il castello che si specchia nel mare mentre, tra turismo e cantiere, tra mare e autostrada mancata, la Calabria si misura col suo destino. Non con i sermoni, ma con l’asfalto che arriva, con le gallerie che si scavano, con il paesaggio che cambia. Qui non si tratta di salvare un presepe, ma di decidere se l’Italia vuole davvero coniugare bellezza e modernità. Finora, per fortuna, oltre alla stanca retorica sono arrivati anche i cantieri.

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