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Cinema

A Natale Rai Uno accende le luci di casa Croce: Pupi Avati racconta il filosofo e la sua Napoli

Il 23 dicembre andrà in onda su Rai Uno “Natale a casa Croce”, un film di Pupi Avati, presentato per la prima volta al "Torino Film Festival" il 26 novembre 2024, per la seconda volta a Pescasseroli, in occasione del "Premio Croce", il 26 luglio 2025, e nell'ambito delle celebrazioni per il Venticinquesimo Centenario della Fondazione di Napoli, promosse dal "Comitato Nazionale Neapolis 2500" il 3 dicembre 2025, a Napoli , al Cinema Filangieri.
Il docufilm è scritto da Pupi Avati con Luigi Boneschi, che con il regista collabora da trenta anni, soprattutto per quanto riguarda i documentari e i film a carattere storico – filosofico, a partire da quelli sul Medioevo fino ad arrivare all'ultimo, di tre anni fa, su Dante, e con cui abbiamo fatto una interessante chiacchierata.
È prodotto da Minerva Pictures, Istituto Luce e Rai.
Il film si preannuncia come un appuntamento da segnare sul calendario, per le festività natalizie. Un modo per immergersi nella ricorrenza in maniera differente, per quella che è stata da sempre la festività più importante sia per gli antichi, sia per i contemporanei in quanto festività della luce, e accendere le luci in casa Croce vuol dire riprendersi tradizione e ragione.
Entriamo subito nel vivo con Luigi Boneschi.

In che modo parte il film? 

« È il Natale del 1951, a Napoli. Intorno alla grande tavola del senatore Benedetto Croce (1866-1952), filosofo di fama mondiale, tornano a riunirsi gli affetti più cari: la moglie Adele, le quattro figlie Elena, Alda, Silvia e Lidia, il genero Raimondo Craveri, l'amico Gino Doria e i nipotini Piero e Benedetta Craveri. Proprio quest'ultima, la più piccola, l'ultima ancora in vita, è la persona che oggi ci introduce nella casa di Croce. Ed è lei, per magia tipicamente “avatiana”, che rievoca i momenti di quella magnifica giornata.»

La narrazione si svolge dunque su due livelli temporali 

« Si, da una parte quel Natale del '51 che sarà l'ultimo tutti insieme; dall'altra il tempo presente in cui Benedetta Craveri ci parla del grande nonno. Qui va ad inserirsi un'ulteriore e speciale testimonianza: Gennaro Sasso.»

Chi è Gennaro Sasso?

«Gennaro Sasso è uno dei grandi filosofi italiani e probabilmente l'unico studioso vivente che abbia conosciuto Croce, che ci fornisce il quadro storico degli eventi che fecero del napoletano, uomo dagli sterminati interessi, il pensatore dominante del suo tempo sia nella filosofia che nella critica estetica- letteraria. Con particolare riguardo per l'amicizia (drammaticamente conclusa dal fascismo) più intensa, produttiva e tragica del '900 italiano: quella con Giovanni Gentile. Venti anni di connubio in cui c'è il momento felice de "La critica", fondamentale rivista di varia cultura, e c'è il finale amaro dell'uccisione di Gentile, compromesso dalla sua adesione al fascismo.»


È un film da interno borghese, come nella migliore tradizione cinematografica italiana. Può essere più specifico?

«La macchina da presa avatiana non abbandona quasi mai le mura di casa Croce. È la casa degli affetti (a partire dal primo grande amore per Angelina Zampanelli), è la casa che offre un punto di vista insostituibile sul mondo (il palazzo Filomarino affacciato su Spaccanapoli). Ed è soprattutto il contenitore di 80.000 volumi che ancora si possono visitare in uno dei luoghi più straordinari di Napoli: la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce presieduta da Benedetta Craveri.»

Il convitato di pietra per questo docufilm potrebbe potrebbe essere “Natale in Casa Cupiello”, l’avete previsto questo con Pupi Avati?

«Avati ha la sua visione non si preoccupa di questi aspetti. L' idea era quella di girare nella casa di Croce e di fare passare in questo unico ambiente, la sala da pranzo, la vita del filosofo, i suoi concetti. Non si è preoccupato di sfidare i cliché partenopei, convinto com'è che esista una dimensione universale dei sentimenti, in cui tutti possano riconoscersi e a cui serviva attingere per avvicinare gli spettatori ai temi filosofici alti. La lezione che ci dà e che un racconto per immagini l'intellettualismo è un atto di presunzione da evitare. Bisogna senz'altro sapere per raccontare: non preoccuparsi di mostrare di sapere. Ma non c’è solo questo, c’è anche la morte e una certa intensità emotiva.»

Più che Eduardo sembra che abbiate scelto di muovervi sul piano della Blixen e del suo “Pranzo di Babette" 

« È un'osservazione pertinente ed è un parallelismo più calzante di quello con Eduardo. Benedetta Craveri, che si è trovata a presiedere la “Fondazione Biblioteca Benedetto Croce”, dopo la morte del fratello Piero, è riuscita a fare trasparire, attraverso la sua narrazione,
il mondo gobettiano, in cui era immersa la famiglia.»

Nel film i libri sono il protagonista vero, non a caso Pupi Avati è stato sedotto da queste stampe e da questi tomi. In che modo il film lo testimonia?

«È proprio uno di questi libri, una lettura del Petrarca, ad accompagnare Benedetto verso la morte, in uno dei momenti di maggiore intensità del docufilm: perché i libri consolano e le biblioteche sono la prova che le vite degli uomini non sono destinate al caos ma alla facoltà ordinatrice del pensiero.»

In che modo il film è stato sviluppato?
«Questo film accoglie, insieme ad alcuni repertori inediti e ad alcune suggestive soluzioni narranti, alcuni dei lati caratteristici del cinema “avatiano”: dalle memorie dilatate dell'infanzia alle visioni gotiche degli interni notturni. Abbiamo consumato un infinito numero di pagine, di libri, di taccuini. È un film biografico, storico, ma non alla maniera dei biopic odierni. Avati procede sempre a suo modo e cioè in maniera frammentaria, con una linea jazz, come componente metrica del testo e delle immagini, capace di aprire sguardi poetici come accadeva nel suo Mozart.
Con la trottola finale che è un richiamo simbolico ai casi dell'esistenza e ai tanti legami che esistono tra i vivi e i morti, tra il passato ed il presente.»

Piccola postilla, a uso dei lettori e degli spettatori, da parte della scrivente
Benedetto Croce e Napoli

Il rapporto tra Benedetto Croce e la città di Napoli rappresenta uno dei casi più significativi di interazione tra un grande intellettuale e il contesto culturale in cui egli visse. Per Croce, Napoli non fu semplicemente un luogo geografico, ma la cornice pulsante che contribuì a formare il suo pensiero e che, a sua volta, fu profondamente trasformata dalla sua presenza. Analizzare questo legame significa comprendere non solo la vita del filosofo, ma anche la storia culturale dell’Italia del Novecento.
Innanzitutto, Napoli fu per Croce la città dell’identità personale, ben più della natia Pescasseroli. Dopo il tragico terremoto di Casamicciola del 1883, in cui perse i genitori e la sorella, Croce fu quasi subito inviato a Roma. Tornato a Napoli abitò in diverse case, accumulando a mano a mano molti libri. Solo negli anni '10 acquistò Palazzo Filomarino. In quel palazzo, Croce costruì la sua biblioteca e la sua officina intellettuale, trasformando un luogo privato in uno dei centri più attivi della cultura italiana. È dunque corretto affermare che Napoli non fu soltanto scenario della sua vita, ne divenne la matrice spirituale.
In secondo luogo, la città influì profondamente sulla formazione filosofica e storica di Croce. Napoli, con la sua ricca tradizione culturale, le sue contraddizioni sociali e il suo vivace humus intellettuale, fornì al filosofo un terreno fertile per elaborare il proprio pensiero, dalla filosofia dello spirito alla critica letteraria. L’ambiente napoletano, caratterizzato da apertura, pluralità e confronto, rispecchiava perfettamente l’idea crociana di libertà come espressione della vita stessa. Di conseguenza, nella produzione crociana si avverte spesso un dialogo costante con la storia e la cultura della città che gli fece da sfondo.
Un ulteriore elemento da considerare è l’importanza che Croce ebbe per la vita culturale e politica di Napoli. Il suo salotto letterario e la sua biblioteca divennero un punto di incontro per generazioni di studiosi, dando vita a quella che può essere definita una vera e propria “scuola napoletana”. Inoltre, Croce ricoprì un ruolo centrale nella politica cittadina e nazionale: da Napoli mosse la sua opposizione al fascismo, e sempre a Napoli fondò l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, ancora oggi una delle istituzioni più prestigiose per la ricerca umanistica. La città, quindi, non fu solo fonte d’ispirazione, ma anche destinataria del suo impegno civile e culturale.
Croce salvò dalla distruzione vari monumenti, chiese e memorie topografiche, specie negli anni dello Sventramento. Impegno sviluppato poi a livello nazionale con provvedimenti legislativi sula protezione di elementi naturali e paesaggistici. Su questo solco operarono anche Elena e Alda Croce con "Italia Nostra" negli anni '60 e '70.
In conclusione, il legame tra Benedetto Croce e Napoli è un rapporto di reciproca influenza, dove la città diventa parte integrante della biografia e del pensiero del filosofo, e Croce diventa a sua volta un protagonista della storia culturale di Napoli. Senza Napoli, Croce non sarebbe stato lo stesso; senza Croce, la Napoli del Novecento non avrebbe avuto il medesimo respiro intellettuale.
È proprio in questa interdipendenza che risiede la forza e l’unicità del loro rapporto, capace di superare il tempo e di parlare ancora oggi al nostro presente.

Un paradiso abitato da poveri diavoli

Nel breve saggio “Un paradiso abitato da poveri diavoli”, Benedetto Croce costruisce una riflessione sulla condizione umana procedendo non in modo astratto, come ci si aspetterebbe da un filosofo, ma attraverso un discorso narrativo e figurato.
Il testo prende avvio da un’immagine insieme poetica e ironica: il mondo come un “paradiso” popolato non da creature nobili, bensì da “poveri diavoli”, cioè da uomini fragili, imperfetti e spesso contraddittori.
L’andamento narrativo si coglie già nella scelta dell’immagine iniziale.
Croce non introduce una tesi, ma una metafora che funziona come nucleo generatore dell’intero discorso.
Il tono non è quello di un trattato, ma quello di un racconto morale in cui l’autore invita il lettore a osservare la realtà umana con occhi sinceri, senza illusioni idealistiche. Con questa apertura Croce mette in scena un mondo che sembra paradisiaco per la sua ricchezza, la sua vitalità e la sua bellezza, ma è abitato da creature dotate di limiti, debolezze e difetti. Questa contraddizione dà origine al movimento discorsivo del testo. Il paradiso non è tale perché gli abitanti sono perfetti, ma perché proprio nella loro imperfezione si rivela la verità dell’esistenza.
Dal punto di vista argomentativo, Croce usa una strategia tipicamente narrativa: procede per esempi concreti, descrivendo tipi umani comuni, facilmente riconoscibili nella quotidianità. Questi “poveri diavoli” non sono figure specifiche, ma personaggi universali, rappresentanti dell’umanità nel suo insieme: chi è governato dalle passioni, chi è vittima delle proprie illusioni, chi è dominato dall’egoismo o dalla vanità. Il tono resta sempre ironico, ma l’ironia non è distruttiva, dietro la descrizione affiora una forma di comprensione, quasi di pietas.
Croce evita il moralismo, preferendo un discorso che alterna osservazione e valutazione, proprio come accade nei racconti morali della tradizione illuministica o classica. Il mondo degli uomini è pieno di errori e di contraddizioni, ma non per questo è da disprezzare. È, per l’appunto, un paradiso imperfetto, ma pur sempre un paradiso, un luogo dove la vita, con tutte le sue debolezze, è comunque degna di essere compresa e vissuta.
Sul piano del significato più profondo, il testo esprime una convinzione centrale del pensiero crociano: l’uomo non è mai una creatura compiuta, non possiede una natura perfetta, ma vive in un processo continuo di formazione e trasformazione.
La narrazione diventa dunque strumento di una filosofia che riconosce la complessità dell’esistenza umana. Croce suggerisce che la grandezza dell’uomo non consiste nel non sbagliare, ma nel combattere ogni giorno contro la propria limitatezza, cercando di elevarsi pur conoscendo i propri difetti.
Un paradiso abitato da poveri diavoli è quindi un testo narrativo-discorsivo in cui Croce parla dell’umanità senza idealizzarla e senza condannarla.
La narrazione serve a mostrare, più che a dimostrare, che gli esseri umani sono simultaneamente creature fallibili e portatrici di senso.
Questo “paradiso abitato da poveri diavoli” è infatti l’unico mondo possibile, e proprio per questo è un mondo ricco, vivo, degno di essere osservato con lucidità, comprensione e, talvolta, con affetto.
Il docufilm di Pupi Avati chiude magicamente questo cerchio.

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