IL MATTINO
SAPORI&SAPERI
25.10.2012 - 11:09
Il pancotto
Chilometro zero. Più che uno slogan, una religione. E come tutte le religioni facile preda di fanatismi di ogni sorta. Nel corso di questi ultimi anni, tutti, dal ristoratore gourmet al pizzaiolo sotto casa, hanno abusato del “km 0”, proponendocelo in tutte le salse e riuscendo a piazzarlo finanche sulla carta igienica delle toilette. Un’infatuazione collettiva che ha scalzato dal podio il caro “bio”, per anni indiscusso sinonimo di qualità, un mistero di fede a cui credere a prescindere, la cui apparizione su una bottiglia di olio o su una conserva di pomodori aveva la capacità di fugare ogni dubbio nel consumatore: se è bio è buono. Certo, il discorso non vale per tutti. Conosco Peppe Zullo da anni, da quando si affannava a spiegare a innocenti e mcdonalds-dipendenti alunni delle scuole elementari la differenza che passa (e ne passa) tra il timo e l’origano. In questi anni Peppe è riuscito nell’impresa di restituire al territorio la sua giusta collocazione nella scala di valori ideale della ristorazione, recuperando qualcosa che dovrebbe naturalmente appartenerci, ovvero il principio per cui la cicoria coltivata nell’orto del contadino compaesano o nella trendissima mini-serra sul balcone, fosse meglio di quella comprata al supermercato, la cui provenienza è sempre messa in discussione dai complottisti gastrofanatici. Un’idea semplice, se vogliamo, ma che negli ultimi anni, soprattutto per noi cittadini (se fate un giro in qualsiasi paesello dell’Appennino Dauno ogni discussione in merito diventa pressoché inutile), aveva bisogno di essere riaffermata con forza. Stesso discorso vale per Slow Food, che ha fatto della tutela delle produzioni tipiche la propria mission, con risultati eccellenti, considerando che la sua attività iniziò nel pieno boom della ristorazione fast e durante l’invasione delle multinazionali dei cibi precotti nelle cucine italiane.Ma come tutte le iniziative che nascono con buoni principi di base, nel momento in cui vengono assimilate dalla massa assumono connotazioni distorte e potenzialmente pericolose. Ed ecco allora che il “km0” appare misticamente in ogni dove, ecco sorgere comitati spontanei per la soppressione della curcuma e gruppi di estremisti che vorrebbero l’abolizione del “chilometro” in favore del “metro”. Precisiamo: è buona regola sensibilizzare il consumatore a un consumo più consapevole, magari privilegiando i piccoli produttori e i prodotti tipici del territorio. Il pericolo costante è quello di finire del tritacarne del populismo gastronomico: se decido di insaporire l’arrosto domenicale con alcuni grani di Pepe di Sichuan (non proprio una spezia locale) o se al brodo del sabato, rigorosamente di gallina ruspante della campagna della nonna, aggiungo un pezzo di zenzero per sgrassare il consommé corro il rischio di essere additato come un fiancheggiatore di un Gruppo Bilderberg alimentare che mira alla distruzione della tradizione culinaria locale? La cucina, per vocazione, è fatta di sperimentazione e innovazione, sapori ricercati e accostamenti improbabili. Alzare barricate tra i fornelli è deleterio per il palato e per le stesse tradizioni gastronomiche di un territorio, incapaci altrimenti di essere oggetto di esportazione e confronto in un settore in continua evoluzione. Se poi il fine ultimo è riempire lo stomaco, un buon panino con la mortadella è la migliore delle soluzioni. Purché sia a “chilometro zero”, ovviamente.
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