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L'indagine

Rotondella, torna l'incubo Itrec: inquinamento del mare, 16 indagati

Rotondella, l'Enea vuole smantellare l'impianto Magnox

La sede Enea a Trisaia di Rotondella

Nell'ambito di una vasta inchiesta condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, sedici persone sono state indagate per gravi reati legati alla gestione illecita di rifiuti e per danni ambientali. Le accuse, mosse al termine della fase preliminare dell'indagine, includono traffico illecito di rifiuti, disastro ambientale, inquinamento ambientale e falso. Al centro dell'inchiesta vi è l'attività svolta presso l'ITREC di Rotondella, in provincia di Matera, un sito attualmente in fase di smantellamento.

Gli indagati, tra cui spiccano dirigenti della Sogin (la società incaricata dello smantellamento del sito) e funzionari pubblici responsabili della valutazione delle istanze ambientali, sono accusati di aver scaricato nel Mar Jonio acque di falda contaminate da sostanze pericolose e cancerogene come il cromo esavalente e il tricloroetilene. Secondo quanto emerso dalle indagini, queste sostanze sarebbero state rilasciate senza alcun tipo di trattamento, causando una grave compromissione dell'ecosistema marino e un danno ambientale non reversibile.

La storia comincia nel 2014, ma, come tutte le storie, ha radici più profonde, fatte di carte bollate, autorizzazioni firmate, e di una centrale nucleare che avrebbe dovuto essere smantellata. Gli indagati sono tanti, ben sedici: dirigenti, funzionari pubblici, gente che, su quelle carte, ci metteva la firma, ma forse con la mano un po' tremante. Le accuse? Pesantissime. Si parla di traffico illecito di rifiuti, disastro ambientale, inquinamento. E poi il falso, perché la verità, in questa storia, sembra un dettaglio dimenticato tra i faldoni.

Secondo la Procura di Potenza, dagli impianti dell'ITREC venivano scaricate acque di falda contaminate. E qui non si parla di acqua piovana, ma di sostanze come cromo esavalente e tricloroetilene, nomi che suonano come sentenze. Veleno puro, rilasciato nel mare, senza alcun trattamento, come se quelle acque fossero pulite, innocue. Ma chi lo decideva? E soprattutto, perché?

Gli inquirenti raccontano una verità inquietante. Le acque venivano scaricate "omettendo di adottare tutti gli accorgimenti necessari", lasciando che la contaminazione si diffondesse nell'ambiente, compromettendo tutto, in modo irreversibile. In altre parole: un disastro ambientale. E non è solo il mare, no. Anche il fiume Sinni ha bevuto quel veleno, con piogge e acque industriali non trattate che scorrevano libere.

Ma il vero colpo arriva con la scoperta delle false attestazioni. Quei dirigenti e funzionari avrebbero certificato che tutto era in regola, che le acque erano sicure, pur sapendo che non era vero. Lo hanno fatto, si sospetta, per evitare costi, per non far esplodere uno scandalo che avrebbe avuto conseguenze disastrose non solo per l'azienda, ma anche sul piano politico ed economico.

E poi c’è quella barriera idraulica, che doveva contenere la contaminazione. Doveva, ma veniva spesso disattivata. Per risparmiare energia, dicono. Risparmiare sui costi di gestione dei rifiuti liquidi, prodotti inevitabilmente dalle attività di bonifica. Spegnere le pompe, abbassare le spese, e lasciare che il veleno continuasse a scorrere.

Nel frattempo, Sogin, la società incaricata dello smantellamento, prende le distanze. In una nota ufficiale, si legge che la contaminazione "non è stata generata dalle attività di smantellamento in corso", e che, appena rilevata, è stata subito denunciata alle autorità competenti. Una difesa che parla di trasparenza, di conferenze di servizio, e di una missione ambientale anteposta a qualsiasi profitto.

Ma la storia non finisce qui. No, c'è ancora tanto da scoprire. Quei sedici indagati dovranno rispondere alle accuse, e chissà quanti altri dettagli emergeranno, pezzo dopo pezzo, come i frammenti di una verità finora sepolta sotto il peso del silenzio.

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