IL MATTINO
Cucina
02.10.2025 - 11:54
Scegliere di fare lo chef, come professione, oggi è di moda, grazie alla visibilità che hanno assunto i cuochi, ma è proprio così che funziona? Gabriella Pesce è la persona adatta per affrontare questo argomento: è una chef ed è una donna che crede nella gavetta e nella preparazione più che nella visibilità.
L'appuntamento è di mattina da lei. Ha già iniziato a cucinare, per sviluppare il menù del giorno, e mentre mi prepara il caffè al bar inizia a parlare.
«Sono molto contenta delle cooking class. Gli stranieri, soprattutto, sono interessati a imparare e a farlo in coppia. Con loro parto dalle prime nozioni: gli insegno ad utilizzare le mani, li metto ad impastare, gli faccio usare il mattarello e poi prepariamo la pizza. Un alimento che dà sempre grandi soddisfazioni. Sono felici come i bambini che giocano con la plastilina. E mentre lavoriamo gli trasmetto anche i segreti per fare meglio l’impasto, come mia madre ha fatto con me. È importante. Una delle mie figlie, la più piccola, ne ho tre, di professione orafa, mi ha raccontato di un maestro orafo che aveva un suono che lo annunciava. Il suono del pendaglio che portava al collo era unico, ed era realizzato in maniera tale che non è stato possibile riprodurlo. Ha portato il segreto con sé. Non voglio che accada con i miei piatti.»
Dal bar ci spostiamo in cucina, con odori di cibo differenti che accompagnano la conversazione. Quello di una focaccia pugliese e di un gattò, nel forno a cuocere, e quello dei salumi e dei formaggi per i taglieri da degustazione.
Gabriella Pesce è la signora della cucina del "Calitto", la tenuta della famiglia D'Ambra, in Panza di Forio d'Ischia, un luogo dove si può soggiornare, dove si possono trascorrere momenti di relax, e dove molto spesso ci sono eventi e manifestazioni.
È una donna con una forte personalità, che si muove come se stesse sfilando. Questa intervista è nata dopo che ho assaggiato la sua focaccia pugliese e ho capito che l'aveva studiata e rifatta, calibrandola su se stessa.
Pensare il cibo e rielaborarlo, dandogli un'impronta genetica, non è alla portata di tutti, specialmente quando si tratta di cibo diffuso e conosciuto come può essere la focaccia pugliese.
Quanto conta avere una base su cui costruire questo mestiere?
«La base è tutto. Se hai assimilato i concetti fondamentali dopo sei in grado anche di inventare e puoi andare avanti, tanto da fare nascere qualcosa di nuovo da un errore. Il tortino al cioccolato per esempio è nato da uno sbaglio».
La tua è una famiglia di ristoratori storici come ha inizio la vostra attività?
«Mia madre e mio padre quando sono arrivati ai Maronti, dove ancora oggi c’è il ristorante di famiglia, ereditato da mio fratello e di cui si occupa mio nipote, non c’era nulla. Mio padre faceva il poliziotto a Roma e mia madre lavorava negli alberghi. Ai Maronti c'era solo la baracca di un pescatore che faceva la stesa delle reti. Me le ricordo ancora, fino a quando non vennero a girare proprio lì “ Il Corsaro dell’Isola Verde”. Quando finirono le riprese i miei genitori costruirono un bar, con le tavole delle scene del film. Il ristorante è nato così. Si è ingrandito, è sopravvissuto alle mareggiate, agli incendi, è cresciuto insieme a noi. Per otto mesi l'anno dormivano là, io e i miei sette fratelli. Sono nata proprio ai Maronti, e sono nata con la camicia, mi raccontava mia madre. Sembravo già grande, con i capelli lunghi come, se avessi avuto già diversi mesi di vita. Il giorno in cui sono nata il tempo era bruttissimo, ma il parto fu facile per mia madre che proprio per questa ragione mi diceva: “Sei arrivata come un'onda del mare».
È stato subito amore per la cucina?
«No, a ventuno anni sostituii mia sorella Pina, che doveva partorire ma che mi aveva tramandato i suoi di segreti, come aveva anche fatto mia sorella Letizia. Da lì è partito tutto, fino al punto che la cucina è diventata parte di me. Durante il Covid ho anche preso il diploma alberghiero, mi mancava l’ultimo anno, e quando mi sono trovata a fare dei corsi per gli studenti, ho capito che volevo continuare a studiare».
Perché?
«Per insegnare. I ragazzi oggi non capiscono che per arrivare a fare lo chef, il percorso è lungo, e che serve la gavetta. Uno chef comanda ma passa il tempo a scrivere menù. Il senso del mio lavoro è questo uesto. I cuochi di una volta giravano il mondo, si misuravano con tutte le cucine. Mi ricordo che quando stavo imparando, a mia volta, il mestiere nelle cucine degli altri, finì il sugo e avevamo un pranzo per molte persone. Lo chef in un attimo risolse il problema, e nessuno rimase senza piatto. Chi comanda in cucina deve ragionare, ma per arrivare a questo ci vogliono tempo e fatica. Tutte cose che i giovani non capiscono, presi come sono dall’ossessione della visibilità».
Come mangia la gente oggi?
«Mangia malissimo e chiede di conseguenza cose assurde. Sempre lo stesso chef del sugo, di fronte alla difficoltà di una cliente di essere soddisfatta della carne che le preparavamo, era sempre poco cotta, prima la mise nella friggitrice e poi sulla piastra. Da una bistecca al sangue si arrivò ad una cotoletta non impanata, a quel punto però la cliente era contenta, anche se era stato totalmente stravolto il cibo. Se lo chef non fosse stato pronto a risolvere un problema come quello sarebbe stata la fine».
Qual è stato il tuo primo ristorante?
«Quello delle Petrelle ai Maronti, insieme a mia sorella Pina. Prendevamo il pescato del giorno e lo proponevamo. Per esempio la razza, che è un pesce meraviglioso e che i pescatori mettevano ad essiccare come se fosse baccalà, oppure la ricciola di fondale, con la sua pelle nera, che si pulisce in un attimo e che è burro. In pratica sarebbe quella che oggi si chiama “morone”, ed è difficile da trovare. Cucinavo tutto a vapore, nelle pentole dei ravioli cinesi, con i castelli in bambù. Riscaldavo ogni pietanza, anche l’insalata di mare, che servivo tiepida e che accompagnavo con la frutta esotica. Il mango per esempio. Sa di pesca e di pepe rosa e con l’insalata di mare è un’esplosione dei sensi. Per chiudere mettevo la menta per dare freschezza.
La cucina evolve e serve sempre intraprendere nuove strade. Il piatto che non muta non mi piace».
Sei a favore della cucina gourmet?
«Si e ti spiego perché. Una pasta e patate destrutturata è comunque una pasta e patate con i suoi sapori. La destrutturazione serve ad essenzializzare i profumi e a rimarcare il piatto per quello che è. Allo stesso modo è importante la maniera in cui un piatto è presentato. L'occhio vuole la sua parte e il piatto deve soddisfare tutti i sensi. La cucina gourmet è innovazione ma il senso non cambia, l'importante è che quando mangi hai la sensazione e la certezza del cibo rappresentato.»
Qual è il tuo piatto preferito?
«Gli spaghetti al pomodoro fresco, che mi preparo quando mi voglio gratificare. Però non esiste più il mio piatto preferito, delle penne sempre al pomodoro fresco, le mangiavo all'asilo. Il profumo e il sapore di quella pasta non li ho ritrovati più. A proposito degli spaghetti ti racconto una cosa. Andai da Gennaro Esposito per la sua "Festa a Vico" (l'evento enogastronomico che celebra la cucina e i prodotti del territorio con la partecipazione di cuochi stellati) e tornai con una shopper della Voiello, che aveva prodotto per la prima volta gli spaghetti quadrati. Tornata a casa mi chiesi come avrei potuto usarli e nacquero i miei spaghetti alici e briciole, che è per me lo scarpariello del mare. Quanti ne ho preparati.»
Come trascorri il tempo libero?
«Quel pochissimo tempo che mi resta lo utilizzo andando in palestra e frequentando le amiche. La solidarietà tra amiche è importante, è una valvola di sfogo senza la quale tutto sarebbe più duro e difficile da affrontare.»
Le tue figlie ti hanno seguita in cucina?
«No. La più grande è un’imprenditrice, si occupa della gestione di una piccola pensione, la più piccola è orafa, la seconda, che ha scelto di andare a studiare architettura a Vienna, con enormi sacrifici, invece cucina e segue i miei consigli.»
In cucina chi riesce meglio tra gli uomini e le donne?
«Le donne sono più sensibili, però devo dire che entrambi i generi funzionano bene, sempre partendo dal presupposto che per stare in cucina servono sensibilità e nervi saldi, perché il lavoro dello chef è usurante. Ad un certo punto serve allentare un po', solo che poi ti ritrovi sempre vicino ai fornelli. Prendi la mia esperienza attuale qui al Calitto. Ero partita con un part-time per preparare le colazioni, poi sono iniziate le degustazioni, le cene, i pranzi, insomma alla fine quando entri in cucina non ne esci più».
L'essere isolana ti ha precluso altre possibilità?
«Solo una volta ho pianto davvero, quando sarei dovuta partire per andare a lavorare in America, insieme ad un ischitano che adesso ha due ristoranti ed è un cuoco di successo. La mia vita si è sempre svolta in cucina.
Mi piacerebbe potere uscire di più dalla mia di cucina per frequentare le cucine degli altri, quelle delle ville, delle case che richiedono la presenza di uno chef per le loro feste. Ischia in questo momento è molto viva sotto questo aspetto. Per esempio c’è un ingegnere australiano della Microsoft che ha progettato otto loft con giardino e orto privati. Quando posso ci vado. Con gli ospiti raccogliamo i prodotti dell’orto, e preparo, al momento e davanti a loro, il pranzo con quello che c’è. La cucina vera è quella in divenire, perché è la cucina degli avanzi, come mi ha insegnato mia madre. In cucina non si butta niente ma soprattutto dal niente si crea il meglio. Con il ristorante non è che si diventi ricchi, in proporzione al lavoro che si fa, ma è il piatto finito la vera conquista».
Esistono davvero le cucine da incubo?
«Ne ho viste tante, e bene ha fatto Antonino Cannavacciulo a proporre in l’Italia il format di Gordon Ramsay. Cannavacciulo è figlio d'arte, il padre Andrea è un grande chef, eppure ha fatto anche lui una durissima gavetta.
I suoi scappellotti ai ristoratori sono giusti».
Il tuo desiderio più grande?
«Laurearmi per insegnare a chi vorrà e dovrà fare il mio mestiere. Nessuno gli spiega quanto sia duro e se non si comprende questo è assolutamente impossibile entrare in cucina. La cucina è una fatica disumana, il divertimento è tutto e solo nel piatto».
La ricetta di Gabriella Pesce
Spaghetti quadrati alici e briciole
Ingredienti (per due)
Duecento cinquanta grammi di spaghetti quadrati
Quattro filetti di alici sott'olio
Olio extravergine di oliva
Un aglio
Parmigiano
Pane raffermo
Erbe aromatiche
Mentre gli spaghetti cuociono prendete una padella, aggiungete l'olio e l'aglio e quando l'aglio imbiondisce toglietelo. Aggiungete le alici fino a farle sciogliere. Tagliate in piccoli quadratini, meglio se in briciole, il pane raffermo che avete fatto bruscare insieme alle erbe aromatiche, la menta principalmente. Scolate la pasta al dente e fate saltare il tutto nella padella, con l'aggiunta di un’abbondante spolverata di parmigiano. Alici e parmigiano sono un’accoppiata vincente.
Provate per credere.
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