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I pensieri dell'Altrove

Il carnevale della vita, tra lacci e stelle filanti

Ci pareva che fosse finalmente arrivato il tempo della ricreazione meritata, della innocua mistificazione, della pausa dall'ordinario pesante e dai ruoli stretti come lacci, anzi, come stelle filanti.

Il carnevale della vita, tra lacci e stelle filanti

Opera di A. Bellobono (Galleria Piziarte.net)

I miei ricordi di carnevale da piccola sono disastrosi, non mi piaceva nessuna maschera e nessun travestimento. Non ero interessata alle stelle filanti perché pensavo mi potessero legare le mani, forse mi incuriosiva l'odore che si sprigionava quando si lanciavano i coriandoli: odore leggero e rotondo di carta colorata, così mi sembrava. Ai miei piaceva un costume da damina che a me faceva piangere, era rosa confetto, con una passamaneria color argento sul bordo delle maniche e un'altra fetta larga di argento luminoso che partiva dal collo e si apriva come un raggio di luna estiva sul fondo di un lago. Un fastoso plissè che attestava la nobiltà e la ricchezza dello status dell'abito. Quella solennità truccata di luce fredda mi faceva sentire inadeguata e triste, infatti ho una foto di me con gli occhi umidi e, per dispetto, senza costume da damina perché lo avevo appena strappato di dosso. Le foto che mio padre ci scattò quell'anno, con cura e con abbondanza di pose, io le ho tutte strappate, quel costume rosa da damina del settecento francese con argenti applicati mi rendeva nervosa e ribelle. L'ultima domenica di quel carnevale andammo come sempre a Venosa, il paese di mia mamma, per mostrare ai nonni le nostre divertenti trasformazioni. Dopo un po' tutti uscirono in giro a festeggiare mentre io mi ritrovai in punizione da sola in casa con nonna Maria, arrabbiatissima con me, perché non volli per nessuna ragione indossare il costume da damina del settecento francese del cavolo. Questo episodio non l'ho più dimenticato perché gli anni non hanno reso meno acuto il mio dispiacere e il mio disprezzo per quello che ritenevo il principio del mio disagio carnevalesco: una stoffa rosa appiccicosa con argenti appiccicati lontani da me e sconosciuti ai miei desideri. Da grande, un po’ di tempo fa, con un gruppo di amici organizzammo una mega festa in maschera in cui sembravamo tutti accelerati e 'mbriachi persi già dalla mattina presto senza aver bevuto neanche un goccio di crodino. Ero diventata madre da pochi anni, mio figlio- bellissimo- aveva il costume di un indiano con le penne e le piume, mio fratello (che non c'è più) era un moschettiere luminoso come il sole, io ero una odalisca con tanto di veli neri ondeggianti e un anello farlocco grande quanto una palla da biliardo. L'abito me lo realizzò una brava sarta di paese, anche mia cognata ed un'amica se lo fecero cucire dalla stessa signora, impegnata in una novità professionale nuova e rischiosa, ma eccitante pari ad un evento come il red carpet della notte degli Oscar.  Eravamo contente, noi avevamo scelto il modello, i soggetti, le stoffe, il make-up e gli accessori- shock. Noi avevamo deciso la festa, partecipata e inedita, affollata e sopra le righe. Verso la fine ricordo tratti di forzata goliardia onestamente esagerata. Ma “il trucco” concedeva licenze diversamente non applicabili al quotidiano irregimentato. Ci pareva che fosse finalmente arrivato il tempo della ricreazione meritata, della innocua mistificazione, della pausa dall'ordinario pesante e dai ruoli stretti come lacci, anzi, come stelle filanti. Ricordo che in quell'occasione il carnevale per me ebbe finalmente un senso semi- liberatorio e giocoso. Col tempo ho poi capito due cose: 1) anche da bambini si può non pretendere di sentirsi sempre felici. Soprattutto nelle feste "comandate", cioè quelle feste che hanno all'interno una sorta di imposizione e non la voglia libera, leggera e personale di festeggiare. 2) anche da grandi non ci si può impedire un innocuo e transitorio momento di gioco. Non irrita e non è disdicevole proprio perché il gioco è ormai un episodio lontano e, semmai, per un tempo corto ti vuoi solo ricordare cos'era e cosa hai conservato. Infine, perché fa bene ogni tanto trovarsi sospesi in una ricognizione del bambino che sei stato e l'adulto che sei diventato. In un appuntamento con la riflessione, con le regole per tutti ed i rimanenti desideri per qualcuno, con le aspettative audaci di ieri ed i sogni nei coriandoli buttati verso il cielo. In questa nostra comune condizione adulta in cui abbiamo visto qualche imbroglio del destino, qualche paillette impigliata fra le ciglia, qualche merletto calpestato dalle scarpe e numerosi trucchi disfatti, in solitudine, molto prima che fosse arrivata la sera.

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Mariantonietta Ippolito

Mariantonietta Ippolito

Il pensiero è la forma più inviolabile e libera che un individuo possa avere. Il pensiero è espressione di verità, di crudezza, di amore. Quando il pensiero diventa parola il rischio della contaminazione della sua autenticità è alto. La scrittura, invece, lo assottiglia, ma non lo violenta. Io amo la scrittura, quella asciutta, un po’ spigolosa, quella che va per sottrazioni e non per addizioni. Quella che mi rappresenta e mi assomiglia, quella che proverò a proporre qui. Dal mondo di “Kabul” al vasto mondo dei pensieri dell’”altrove”.

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