IL MATTINO
I pensieri dell'Altrove
20.05.2018 - 09:45
Le donne, così vicine al profondo della terra, così unite al nucleo intimo della vita, così dense di nodi simili ai cordoni che custodiamo nelle pance calde eppure, spesso, così strozzate nel buio del perverso che fa morire il cuore.
“Ma tu com’eri vestita?” Questa è una domanda che da qualche tempo ha delle risposte che si vedono. Sono quelle risposte esposte dietro delle vetrine lunghe, con dei commenti scarni e lucidi, ma pieni di dolore intimo ed indimenticabile. Sono le risposte rimaste attaccate negli abiti autentici, o riprodotti, di donne che hanno subito uno stupro. E che, dietro la domanda capziosa, rappresentano una violenza aggiuntiva. Come se un abito o un pantalone, una camicetta o una gonna potessero implicitamente rappresentare un incitamento alla sopraffazione o, peggio, un invito sottinteso malizioso e subdolo. Come se un luogo, un modo di camminare, un modo di vestire possano in qualche misura offrire giustificazione non alla vittima, sia chiaro, ma all’aggressore. Questa mostra di abiti che sta facendo il giro del mondo prende ispirazione da una poesia di Mary Simmerling, “what I was wearing”. Gli abiti sono dei pantaloni “normali”, e con questo intendo dei pantaloni che non hanno spacchi ammiccanti, magliette senza nessuna provocazione dichiarata, abiti semplici che di seducente, al limite, hanno solo l’etichetta della composizione del tessuto. Appartengono a studentesse, operaie, donne che tornavano a casa. Abusate in angoli di metropolitane sudice, in parchi senza testimoni, in macchine portate nei tratturi isolati. Ma anche in casa, al riparo di muri che non fanno sentire l’urlo dopo uno schiaffo che ti schianta con la faccia per terra, che non fanno vedere il sangue che esce dal naso, che proteggono il carnefice e le sue pretese selvagge sulla preda. Quante volte ancora dobbiamo avere paura di camminare, di andare, di muoverci senza la disabilitante sensazione di essere potenzialmente sempre in pericolo? Quanto tempo ancora serve al mondo per non dover morire per mano di un padre, di un fratello, solo perché l’amore non conosce religioni, culture, tradizioni arcaiche e incivili? Quanto dolore devono ancora subire le bambine che sopportano (quelle che ce la fanno) il raccapricciante rito della infibulazione? Quante preghiere strazianti devono ancora recitare quelle madri che, in India, devono vedere sopprimere subito dopo il parto le figlie femmine solo perché femmine? C’è una traccia costante e continua di incommentabile prevaricazione violenta che va dall’omicidio ai maltrattamenti in famiglia, dalle offese disgustose sui posti di lavoro alla negazione di diritti nei contesti sociali. Siamo celebrate, solo nelle iconografie, come gli angeli del focolare, come l’altra metà del cielo, i fiori più teneri della primavera, la parte bella del mondo e contestualmente veniamo massacrate di botte, ingiuriate, sporcate. Una schizofrenia concettuale e ideologica, una povertà culturale pericolosa, una malattia antica e cronica che tutte noi ci chiediamo con preoccupazione quando scopriranno finalmente una cura che fermi l’epidemia mortale. Le donne, così vicine al profondo della terra, così unite al nucleo intimo della vita, così dense di nodi simili ai cordoni che custodiamo nelle pance calde eppure, spesso, così strozzate nel buio del perverso che fa morire il cuore. Dietro i vetri della mostra non ci sono solo gli abiti o numeri, ci sono nomi, storie, mani, anime. E fra quelle anime vedi anche un’agghiacciante esposizione di costumini e mutandine di bimbe. E lì, senti dentro tutte le lacrime di rabbia e impotenza che urlano per l’innocenza uccisa. Guardarle fa malissimo, perché ci vedi chiaramente la disperazione e la maledizione dell’orrore subìto. Questa mostra parla di delitti che ogni giorno si commettono ovunque. La tragedia è che l’ovunque diventa un percorso di dolore “solo”, di perdizione di una parte di sé e della propria anima, di paura antica e ripetuta. La tragedia è ignorare un diritto sacro alla vita sicura, normale, non inquinata da una sotto cultura spregevole che ancora non conosce e non riconosce l’antidoto necessario per salvarci. Noi, come esseri umani, ancora aspettiamo.
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