IL MATTINO
Storie&Geografie
19.11.2017 - 21:39
Alberto Sordi in "Buona notte... Avvocato" (1955)
Uno spettro ha fatto una passeggiata per il Tribunale di Foggia sollevando –nonostante la sua immaterialità– polvere e vento. Questo spettro è la figura dell’avvocato penalista e adesso che la polvere si è posata vale la pena tentare di descriverlo. Perché i fantasmi sono così, come quello di Canterville: quando li conosci non fanno più paura. La carriera forense, come tutte le professioni, era caratterizzata da una forte componente elitaria, che aveva una ragione particolare per essere conservata. Le professioni un tempo erano la guida della società civile e anche la politica era una diretta emanazione di queste e di altre poche categorie. I tempi sono cambiati, radicalmente, e le professioni sono state “inquinate” dalla democrazia. Che è un bene, alla fine dei conti, ma va presa con i dovuti accorgimenti e nelle giuste dosi. Gli aspetti positivi si sono avvertiti subito. Giovani promettenti, ma di modesta estrazione, hanno arricchito le fila di una categoria baronale che nel mutare dei tempi stava sclerotizzando. La dinamicità della mente commerciale ha svecchiato metodi e protocolli obsoleti.
Ma se il Dott. Jekyll non era più adatto ad affrontare un mondo diventato più cattivo, non per questo Mr. Hyde può dirsi adeguato e, come sempre, l’ottimo va ricercato nell’equilibrio. Le scorse settimane un confronto duro tra professionisti ha dato l’occasione per meditare sui modi e sulla individuazione di questo baricentro: l’elezione per i vertici direttivi della Camera Penale di Capitanata, l’associazione più prestigiosa e rappresentativa degli avvocati penalisti del Tribunale di Foggia.
Per i non addetti ai lavori un spiegazione si impone. La Camera Penale non rappresenta tutti gli avvocati penalisti, difficili da individuare perché per patrocinare in un giudizio penale occorre solo essere avvocati –che non è poco, ma testimonia un vecchio dibattito sulle specializzazioni interne all’avvocatura. La Camera Penale poi non rappresenta certo tutti gli avvocati, perché l’unico organo deputato a farlo è l’Ordine Forense, locale e nazionale. La Camera Penale è quindi solo un’associazione. Che però, di fatto, si è imposta a livello nazionale –con l’Unione delle Camere Penali– per organizzazione, efficienza e legittimazione nel trattare i problemi della Giustizia penale. Per ogni tribunale può essere costituita una singola Camera penale, i cui compiti sono oggetto di continua discussione. La forbice è piuttosto larga e parte da un estremo secondo il quale gli avvocati possono, e devono, difendersi da soli con l‘arma delle norme processuali, e quindi la Camera, non volendo sostituirsi alle attività difensive, deve dedicarsi al più elevato compito di lavorare sulle norme che i colleghi poi devono far applicare sul campo. L’altro estremo è costituito dalle opinioni che vedono gli organismi deputati al pronto soccorso delle più minute esigenze del singolo avvocato: dai rapporti con i giudici –compresi gli inevitabili disaccordi o confronti più aspri– alla manutenzione spicciola delle aule e dei servizi igienici. La giusta opinione, ancora una volta, è nel mezzo, valutando la Camera di intervenire nella organizzazione delle udienze in generale o nei casi più eclatanti di comportamenti incivili o sleali, o come tali denunciati. In questa polemica sui compiti, la soluzione diviene importante soprattutto per misurare l’efficienza e il gradimento delle dirigenza uscente. Si è giunti infatti alla fine del mandato dell’attuale presidente e non è utile qui prender parte sulle questioni formali, che pure sono state sollevate, ma che in nulla mutano l’esito del confronto. Perché questo si è svolto su un piano del tutto differente. Ciò che è invece utile è infatti comprendere, in linea generale, cosa è successo e perché. Nella imminenza delle elezioni, alcuni colleghi hanno sollevato il problema della tutela della dignità dell’avvocatura che è affidata –secondo quanto dichiarato in più occasioni– agli avvocati più autorevoli. Personalmente l’affermazione mi trova d’accordo. La democrazia non funziona bene in tutti i campi e di fronte ad una corporazione –gli avvocati, appunto– rischia di falsare i valori in gioco.
Nella cosa pubblica l’equazione “una testa, un voto” ha costituito un progresso, pure con i limiti imposti dal dare ad un cittadino consapevole lo stesso valore del voto di un idiota. Ma in campo corporativo vale ancora il carisma, l’autorevolezza, la saggezza. In via di principio il criterio è sacrosanto. Ma un concetto così delicato pretende una riflessione su cosa si intenda per autorevolezza nel mondo professionale. Criteri di avveramento automatico, o di riferimento a valori esterni quali la prosperità possono, secondo me, essere scartati. L’anzianità sul campo non riveste eccessivo valore perché qualunque imbecille invecchia rimanendo tale. Anche il fatturato dice poco, considerate le volte in cui colleghi benestanti hanno smesso di prosperare allorquando sono incappati nelle maglie della giustizia. E allora cosa può supplire, come valido sostituto, al suffragio democraticamente bandito? Come, in passato, assente la democrazia, veniva riconosciuto il collega più autorevole?
Certo, non l’autoinvestitura né il vestirsi da sé di sapienza. Così come dico sempre, che il rispetto altrui occorre guadagnarselo e non si riceve in regalo, così l’investitura a Maestro di una professione non può che essere la conseguenza di un riconoscimento pressoché unanime del consesso sociale nel quale questo carisma deve essere coltivato. Su questo occorre meditare. L’autorevole avvocato non ha la sola caratteristica di essere in alto, al di sopra di colleghi giovani o meno sapienti. Ha soprattutto la capacità di guardare dietro di sé, di non dimenticare mai i colleghi. Di essere, lui solo, la Camera penale degli altri, quale che sia la dimensione o il problema che incontra o che gli viene sottoposto. Il presidente attuale ha questa caratteristica. Non è solo perché almeno uno dei suoi oppositori la possiede. È un percorso parallelo alla sua formazione ed alla sua crescita quello di andare avanti senza concentrarsi solo su se stesso, e non è facile farlo con le difficoltà, a volte invalicabili, che la vita professionale impone. Non va condannato chi non prende questa strada, ma chi riesce a percorrerla un passo alla volta, senza rimanere indietro nel suo percorso personale, ad un certo punto viene premiato con il riconoscimento dei colleghi. Quel riconoscimento che un tempo era rappresentato dagli scudi sui quali si veniva innalzati, e che ora è dato dal voto. E se nei bei vecchi tempi andati l’autorevolezza non riusciva nemmeno a nascere senza queste caratteristiche, al giorno d’oggi è il sistema democratico –nel suo modo anche non perfetto– a rimettere le cose al proprio posto.
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