IL MATTINO
Profeti e Sibille
16.05.2014 - 15:11
Il museo Horne di Firenze
Fu voluta dall’architetto e storico dell’arte Herbert Piercy Horne, la collezione di quadri e oggetti d’arte ospitata presso Palazzo Corsi in via de’ Benci al Borgo di Santa Croce in Firenze. A pochi passi dall’Arno, si imposta l’imponente edificio che un tempo appartenne alla facoltosa famiglia degli Alberti per poi passare ai Corsi, fu così che, dopo alcuni cambi di proprietà, il palagetto divenne nel 1911 di Mister Horne.
Innamorato del nostro paese e cultore delle belle arti, Horne rimase folgorato dalle bellezze fiorentine ed ebbe in animo, fin da subito, di costituire attorno a sé una collezione di pezzi d’arte che rappresentasse al meglio il secolo della rinascenza. È così che nacque quello che oggi è fuori da ogni dubbio , uno dei più bei musei di Firenze. Non è un caso che a presiedere la Fondazione Horne ci sia il professor Antonio Paolucci, luminare nel campo e direttore dei Musei Vaticani, mentre a dirigerlo ci sia con altrettanto prestigio la dottoressa Nardinocchi, a questi nomi altisonanti fanno seguito una schiera di collaboratori che gestiscono con cura e sapienza il prezioso archivio e la ricca biblioteca, lasciti anch’essi dell’inglese.
A Palazzo Corsi si saggiano le atmosfere di un tempo che si sono conservate integre grazie ad un restauro conservativo che ci ridona pressoché inalterati gli ambienti originali, dalle camere da letto con tanto di discreto passaggio interno, alle cucine – una per piano – che consentivano di approvvigionare di ogni cibaria i benestanti detentori del palazzo. All’impianto originale fa eco una collezione che ben si integra nel contesto architettonico e che regala ai visitatori opere di grande pregio. Da dove cominciare in un mare sconfinato di “celebrità”?
Forse dal Santo Stefano martire di Giotto che si presta ad essere “musa” nei depliant illustrativi del museo, vera perla nascosta della collezione acquistata da Horne per pochi pound quando versava nell’anonimato e oggi unanimemente attribuita dal mondo accademico al pittore delle Storie di San Francesco in Assisi. Che dire poi della predella lignea con le Storie di San Giuliano di Masaccio, una delle poche opere che si conservano data la giovane età alla quale il pittore toscano ha lasciato la vita terrena. Ma tra gli artisti si può dire che non manchi nessuno tra i grandi tra ‘300 e ‘400, da Simone Martini a Benozzo Gozzoli, da Filippo Lippi a Filippino al Beccafumi passando per Piero di Cosimo, Lorenzo di Credi, Dosso Dossi e Luca Signorelli con una inedita Santa Caterina d’Alessandria che invece di accompagnarsi con la ruota (attributo del suo martirio) si distende su di essa con leziosa grazia.
Tra i tanti maestri noti si trova un artista anonimo la cui opera, un trittico con la Madonna il Bambino e due sante, è di qualità davvero apprezzabile, tanto da fargli meritare l’attribuzione ad una pittore italiano attivo nella prima metà del Trecento, chiamato a memoria del pezzo fiorentino: Maestro del Trittico Horne. L’opera venne inizialmente riferita da van Maerle alla scuola del Maestro della Santa Cecilia, avvicinandolo stilisticamente ad un pezzo conservato nel Museo civico di Pescia ma poi Offner nel suo corpus di studio sulla pittura fiorentina ne ricostruì la personalità artistica accorpando al Maestro del Trittico Horne una serie di altre opere riferibili alla sua mano. Tra queste è stata recentemente pubblicata nel bollettino “Panorama Musei” (settembre 2013, pp. 4-5), una Madonna con bambino per la quale si torna a fare il suo nome assieme a quello di altri pittori di ambito giottesco come Pacino di Bonaguida e Lippo di Beniveni. Nella Madonna piacentina in collezione privata, lo sguardo traverso e la pennellata corposa puntano dritto il dito al Maestro del Trittico Horne facendo di lui il primo imputato ad “accollarsene” l’autografia. Un altro successo per Horne che anche in questo caso ci ha visto lungo riconoscendo il talento indiscusso dell’anonimo pittore del XIV secolo che spicca tra i giotteschi, per raffinatezza e struggente verismo.
La scultura infine non eccepisce in quanto ad illustri presenze da Desiderio da Settignano al Giambologna, il cui pezzo (una Venere inginocchiata) viene stretto in pugno con fermezza da sir Horne nell’unica tela che lo ritrae con vezzo da collezionista di antichità. Da quest’opera poi si dipana una storia che viene raccontata in un video di presentazione che si gusta in un locale attiguo alla corte circondati dai lavori di Horne artista e architetto che si dilettava a progettare loghi e frontespizi come quello per la celeberrima rivista d’arte “The Burlington Magazine“.
Tutto a via de’ Benci parla di lui, della sua insaziabile curiosità, del suo genio artistico, della sua fame d’arte e del suo gusto sopraffino che a Firenze, a pochi metri dall’antico ponte alle Grazie, coniuga sapori rinascimentali e finezze anglosassoni in nome di una bellezza che qui è vera pulchritudo.
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