IL MATTINO
L'editoriale
02.05.2021 - 09:23
Chapeau per Pio e Amedeo, che hanno saputo fare di necessità virtù nell’Italia del sottobosco diventata chioma, in cui la scena è occupata da politici di avanspettacolo in cerca d’autore, incapaci di reggere un copione che guardi al futuro, balbettanti amenità al limite dell’idiozia. Almeno loro, Pio e Amedeo, interpretano se stessi, in uno sfornato da bassa pasticceria che è pur sempre meglio della melassa della De Filippi. La speranza è che l’Italia a cui piace ridere torni anche a pensare, che il suo humus di ovvietà e contraddizioni sia fecondato da una linfa culturale capace di far rifulgere una esemplare chioma di donne e uomini da additare come modello, che non può essere contraffatto con quello casereccio di Pio e Amedeo.
Pio e Amedeo sono intelligenti, scaltri e sfacciati: tanto basta per riuscire a trasformare in possibilità i loro limiti, che sono quelli della Foggia-macchietta da cui provengono e che ben rappresenta l’Italietta politica da bar che ci ritroviamo divisa da un’ora di coprifuoco in più o in meno.
Pio D’Antini e Amedeo Grieco hanno imparato a volare dallo stagno della città in cui sono nati facendo sci d’acqua di comicità e ironia sulla palude malarica da cui Foggia è sorta grazie al normanno Roberto d’Altavilla, “Il Guiscardo”, Conte di Puglia e Calabria, che si prese la briga di bonificarla perché Federico II ne facesse il granaio d’Italia, crocevia della transumanza meridionale, fino a quando la scoperta della sua posizione geografica strategica per i trasporti ferroviari tra Adriatico e Tirreno non ne segnasse lo sviluppo economico e, infine, il declino per i tragici bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale, che la seppellirono. I latifondisti e i ferrovieri, che la dominavano facendone la Storia con l’espressione, anche per contrasto, di figure eccellenti come Giuseppe Di Vittorio e Giuseppe Pavoncelli, Gaetano Postiglione, Vincenzo Russo e Paolo Agostinacchio, furono man mano scalzati dai muratori che si inventarono costruttori nell’urgenza di riedificare la città distrutta dalle incursioni aeree anglo-americane. Pio e Amedeo, nati esattamente quarant’anni dopo, sono figli di quel cantiere progredito con la cazzuola che ancora impasta politica e cemento, cedendo gli interstizi amalgamanti alla malavita, incapace, per connaturati e comprensibili limiti culturali, di esprimere una classe politica e dirigente di alto profilo, di recuperare alla città la sua identità storica surrogata, di fatto, dal pallone e dalle chiacchiera da bar di periferia: gli ambienti in cui Pio e Amedeo sono cresciuti e che hanno imparato a sfruttare per trasformare la loro vita in uno spettacolo ridanciano che la tv berlusconiana (quale altra, sennò?) serve, dai tempi di “Emigratis”, sulle tavole - e all’intelletto - tristemente imbandito degli italiani. Chapeau per Pio e Amedeo, che hanno saputo fare di necessità virtù nell’Italia del sottobosco diventata chioma, in cui la scena è occupata da politici di avanspettacolo (con tutto il rispetto per coloro che lo hanno reso grande, da Totò a Lino Banfi) in cerca d’autore, incapaci di reggere un copione che guardi al futuro, balbettanti amenità al limite dell’idiozia. Almeno loro, Pio e Amedeo, interpretano se stessi, in uno sfornato da bassa pasticceria che è pur sempre meglio della melassa della De Filippi.
La speranza è che l’Italia a cui piace ridere torni anche a pensare, che il suo humus di ovvietà e contraddizioni sia fecondato da una linfa culturale capace di far rifulgere una esemplare chioma di donne e uomini da additare come modello, che non può essere contraffatto con quello casereccio di Pio e Amedeo.
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