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Siamo tutti europei ma vi ricordate di Italia-Inghilterra?

Siamo tutti europei ma vi ricordate di Italia-Inghilterra?
È cominciata lentamente. Un po’ per scaramanzia, un po’ per ritegno, ci si carica di disincantato cinismo. Gioca l’Italia, e altro non è che una scusa per stare insieme. L’altra sera, Italia-Inghilterra, chi vince prosegue, l’altro torna a casa. Ma quale casa, se ormai la nostra patria è anche l’Inghilterra? In fondo, se siamo tutti cittadini europei, la nazionale non ha molto senso. E via a teorizzare che forse è ora di una nazionale europea; che l’idea di nazione è superata; che c’è la crisi e noi pensiamo al pallone e così via. C’è chi si presenta anche in ritardo, perché sia ben chiaro che del calcio non gliene importa niente e che non si fa fregare da chi ci agita davanti l’Italia del pallone per non farci pensare all’IMU. Anche la nazionale ha sempre cominciato lentamente, da che ne ho memoria. Gironi passati per il rotto della cuffia (e questi europei non fanno eccezione), qualche polemica sui giornali, perché i giocatori sono pagati troppo e c’è chi non arriva a fine mese; e adesso si sono messi anche a scommettere. Insomma, dal ‘78 il copione non cambia. Fa ingresso l’ultimo ospite, tuonando contro il traffico irrazionale di chi corre per andare a vedere una partita: “è solo una partita, porca miseria!” E sale, inascoltata –perché il gioco è appena iniziato– una dotta disquisizione sul mercato in nero delle bandiere e delle trombette con la bomboletta. Ma perché la Finanza non controlla questi qua, invece di perseguitare il mio negozio? E intanto sono passati venti minuti e questi ancora non segnano. Sale la preoccupazione. Quello che fino a pochi secondi prima parlava di IMU, comincia a imprecare sottovoce: ma perché Prandelli non gli dà mai ascolto? Anche Vicini aveva lo stesso vizio, e Bearzot prima di lui. Nessuno capisce: lui sa come schierare la squadra e nessuno gli chiede un’opinione. I minuti di gioco passano a trenta. L’europeista convinto comincia ad elencare tutte le nefandezze delle quali si sono macchiati gli inglesi, a cominciare dalla Magna Charta e finendo alla seconda guerra mondiale, con un piccolo accenno a “quella che gli aveva dato picche in campeggio quando era giovane”. Finisce il primo tempo, ma quello che era venuto a casa “solo per fare due chiacchiere e stare insieme” non rivolge la parola a nessuno. Quando l’amico gli chiede se vuole un’altra birra, lo guarda come se gli avesse appena sentito emettere un rutto in chiesa, durante la messa. “Ma cosa vuoi che me ne freghi della birra!!” Il resto della partita è un’agonia, che dura implacabile fino alla fine dei supplementari, quando i calci di rigore rievocano la scena della roulette russa del Cacciatore di Robert De Niro. Il padrone di casa si mette dietro la televisione. Non vuole guardare, non regge. Quello che faceva i conti in tasca ai giocatori chiede loro silenziosamente perdono, non dirà più una parola, giura, ma fate goal per favore. Siamo tutti con Buffon: scommetti quanto cacchio ti pare, ché io nemmeno ho capito quello che hanno scritto contro di te. Basta che prendi il pallone. E prende il pallone. E tutto crolla: il ritegno, il cinismo, la scaramanzia che non serve più, tanto abbiamo vinto.  L’allenatore mancato perdona Prandelli e si abbraccia con l’anglofobo. Più tardi, sulla via di casa, incontreremo quello che se la prendeva con i venditori di bombolette. Incurante del codice della strada, agiterà una bandiera di tre metri, rigorosamente comprata senza scontrino, mezzo busto fuori dal finestrino. Finalmente tornato ragazzino, beato lui. La bandiera, manco a dirlo, è il tricolore. Quella europea non era nemmeno in vendita. Non c’è niente da fare. Nemmeno il 2 giugno riusciamo a sentirci così Italiani come davanti ad una partita della Nazionale; e va bene così, non dimentichiamolo mai. Per quanto l’idea di Europa sia bella, viva l’Italia. Non occorre sempre razionalizzare. Ma non eravamo pieni di problemi? Ci hanno fregato anche stavolta? O forse, sentendoci orgogliosamente Italiani, troveremo la forza, anche in questo modo sgangherato, anche solo per i prossimi due giorni, di affrontare meglio la vita che ci è toccata in sorte?
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Marco Scillitani

Marco Scillitani

È nato nel 1967, il 23 novembre, giorno che gli ha consentito di festeggiare un compleanno indimenticabile con il terremoto del 1980. Fa l'avvocato non per vivere, ma perché lo trova interessante e, non avendo mai saputo usare le mani gli è parso il metodo più efficace per raddrizzare le cose storte. Insegna Magia e Formule all'Università, ma di nascosto. Chi lo ascolta crede che parli di Procedura penale. Solo il titolare della cattedra se ne è accorto ma fa finta di niente. Da piccolo ha cominciato a osservare quello che gli accadeva intorno, collezionando storie e territori immaginari. Quando qualcuno glielo chiede, le restituisce. Ma non si assume responsabilità.

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