IL MATTINO
Cultura
11.08.2024 - 20:08
È praticamente impossibile scrivere di Ernest Hemingway cercando di uscire dal tunnel del ritrito, tanto più che ha attraversato il '900 riuscendo a intercettare la realtà in maniera fattiva, al punto da essere stato un autore popolare e problematico, in eguale misura, e per questo vicino a chiunque, come prima di lui era accaduto solo a Jack London, con cui condivideva la difficile accettazione della scrittura come mestiere, e l’epilogo drammatico.
La sua contemporanea attualità è tutta racchiusa proprio in questa difficoltà di scindere la vita, dal mestiere di scrivere, proprio perché sia della vita, sia del mestiere di scrivere Hemingway aveva scoperto i punti nevralgici, i tagli, che lo portavano a soffrire e a sanguinare in maniera violenta e brutale, e che in parte sono dovuti alla sua difficoltà di vivere con l’assillo della morte. Una morte che il padre prima di lui aveva deciso di scegliere da solo, e che è il nocciolo di tutta la sua produzione letteraria, una produzione letteraria che è sempre e solo una parte del sé, appendice esterna, di Hemingway.
«Ora, nel buio, e senza luci in vista e senza chiarori, e soltanto col vento e la spinta regolare della vela, gli parve di essere già morto, forse. Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita.»
Scriveva ne “Il vecchio e il mare”, il suo libro testamento, quello più chiaramente oscuro, dove per contrastare il potere vitale del mare, lui si "serve" dell'esperienza stanca di un uomo che il mare ha cercato di vincere, senza riuscirci, come accadeva a lui con la scrittura.
Scrivere che Hemingway abbia cercato attraverso le sue opere di sfuggire al proprio destino/tarlo di morte (destino tarlo tutt’altro che nascosto) non è sbagliato proprio perché la morte in Hemingway è la ferita impossibile a rimarginarsi, una ferita che lui accudisce con passioni maschie come la caccia, la boxe e con un mestiere come la scrittura.
Ci sono poi le donne, mai completamente afferrate e cambiate, all'interno di uno schema familiare, dove l’accudimento più che la passione è l'unica vera molla che le animava, per lui, proprio perché così facendo non doveva mettere in discussione il proprio modello di vita, ma soprattutto non doveva distogliersi dal grumo/ ossessione "morte".
«Le donne possono essere
Per questa ragione l'opera sua più risolta e complessa all'interno di una produzione letteraria copiosa, è “Fiesta”, un libro in cui l'autobiografia incontra il realismo, realismo proprio della cronaca e della poesia.
«La mattina era finito tutto. La fiesta si era conclusa. Mi svegliai verso le nove, feci il bagno, mi vestii e scesi. La piazza era deserta e non c’era nessuno per le strade. Solo qualche bambino che raccoglieva aste di razzi nella piazza. I caffè si stavano appena aprendo e i camerieri portavano fuori le comode sedie bianche di vimini, disponendole intorno ai tavolini col ripiano di marmo nell’ombra del portico. Stavano pulendo le strade e annaffiandole con un idrante.»
Entrambi gli stili: quello poetico e quello cronachistico/realistico sono caratterizzati dall’asciuttezza, dall’essenzialità, tali da mettere a nudo la pelle e l’anima dei personaggi in un contesto quale è quello della corrida. Un contesto che convoglia e compatta il libro e le azioni dei protagonisti, un contesto che a chiunque, tranne che a lui, avrebbe parlato, e parla, solo di morte, e invece Hemingway attraverso la sfumata complessità di scrivere della propria morte attraverso l'altro, il toro, rende anche la corrida un luogo necessario per accettare e superare la paura di vivere con la spada di Damocle della fine dell'esistenza. Perché la corrida è il recinto in cui tutti i personaggi - la loro mancanza di consapevolezza, il loro essere, ognuno, monade separata di Hemingway, e sua parte maledetta - girano a vuoto, in attesa di morire mentre cercano disperatamente di vivere.
Ed è per questo che quello di Hemingway in “Fiesta” è uno scrivere drammatico e disincantato, per questa lotta tra la vita e la morte che lui rende comunque leggera, libera. Una libertà che è della scelta di vivere il proprio tempo con le sue contraddizioni e con le sue difficoltà, all'interno di una gabbia, in attesa di essere trafitto dal dardo ferale, dardo con cui ognuno gioca alla roulette russa a suo modo e indeciso. Una danza macabra, alla maniera di Saint-Saëns, danza macabra in cui gli animali fungono da tramite e da catalizzatore.
«Non m’importava che cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era.»
Lo scontro tra libertà e indecisione non è fine a se stesso, dà luogo a una confusione, confusione che finisce per avere la sua forma più compiuta nell’alcool, nell’ubriachezza, nelle feste sfrenate, nella vita sregolata.
La notte allora diventa il momento della giornata in cui ci si trova da soli e si è costretti a guardare ai propri limiti tanto da bandire il sonno. E di notte la morte del toro, che è la morte dell’altro sé mai domo, deve essere per questa ragione festeggiata con soddisfazione e felicità. Ma è questa una festa effimera perché “ la sensazione che tutto questo fosse qualcosa di ripetuto, qualcosa da cui ero già passato e da cui mi toccava passare di nuovo” non lo lasciava, facendolo girare a vuoto.
Ed è per questo che quando la festa, “Fiesta”, si conclude, quando Pamplona ritorna nel silenzio, quando il duro scontro tra indecisione e tensione verso la libertà si placa nell’animo (grazie al toro sacrificato) quando la musica cessa nelle strade e nei locali, quando gli uomini bevono le ultime gocce di vino nei loro bicchieri, è in quel momento che tutto torna a essere uguale a come era iniziato. Con una differenza. Ora c’è la consapevolezza. Ed è questa presa di coscienza a rendere, stavolta sì, il finale amaro “ci saremmo potuti divertire tanto insieme [...] “sì, non è carino pensarlo?”. Perché ora si può solo pensare, non più vivere. Prima si aveva vissuto, ma non si aveva pensato.”
Compreso questo si capisce di Hemingway ogni cosa come il continuo peregrinare e il bisogno di stordirsi. Cose che per altro hanno fatto la fortuna dei luoghi da lui attraversati, Cuba e Venezia, quelli più noti e più pubblicizzati, come se Hemingway fosse un brand. E lo è diventato e per davvero, una cosa che suona come una maledizione per lui che l’oblio della carne aveva perseguito da vivo. Oblio che nemmeno da morto gli è stato concesso perché quella scrittura che era la cosa che più gli stava a cuore, al punto da arrivare al tragico epilogo perché convinto di non riuscire più a scrivere, gli ha garantito la pacificazione e la ricomposizione da morto. Insomma adesso, e finalmente, grazie alle sue tracce scritte la ferita si è rimarginata, senza che ci sia più carne da massacrare, come accade in qualsiasi festa/Fiesta.
Una cosa da premio Nobel, questa volta ritirato per davvero dall’al di là, ogni giorno che qualcuno, nel mondo, lo sfoglia e lo legge.
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