IL MATTINO
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06.04.2024 - 22:13
Vincenzo Gambardella è uno scrittore sconosciuto ai più perché anomalo nel panorama editoriale italiano:
- non è social;
- è gentile ma non di maniera;
- utilizza il telefono come usava una volta, nel senso che lo usa per comunicare senza il filtro della virtualità;
- scrive anche e soprattutto per divertirsi;
- è naturalmente scrittore e non lo deve continuamente rimarcare per convincersene
Lei è uno scrittore atipico nel senso che per lei la scrittura è soprattutto gioco e divertimento. Le parole per lei sono suoni, colori, luci. La maledizione della scrittura non le appartiene
Dice bene, ma aggiungerei che la scrittura è anche compagnia, una cosa umana, viva. Ho seguito qualche anno fa la lettura dei "Promessi Sposi", qui a Milano, al CMC. È incredibile la forza teatrale, la forza di rappresentazione che c’è nei "Promessi Sposi". Una vera sorpresa. Un libro di oggi. E le parole che uso, sì, sono suoni, colori e luci. Del resto ho studiato alle "Belle Arti" e ho studiato chitarra. Ho sempre amato la musica.
Nei suoi libri spesso gli animali sono i protagonisti. Cosa ci accomuna agli animali
Il corpo è ciò che ci unisce agli animali. Ho fatto parlare scimmie, gatti, topi, cani e persino una pulce, come nel mio libro: "Spicchi di Calderòn". Nel mio romanzo "Splendore dei randagi", i cani sono uomini e hanno le stesse speranze degli uomini. La loro speranza principale è quella di salvarsi, di fare parte anche loro del grande disegno della salvezza, ma non da soli.
Quando e da dove nasce questa la sua esigenza di raccontare Napoli usando la toponomastica come chiave, in assoluta controtendenza con le descrizioni odierne di Napoli?
Mi viene da dire, in questo momento, in assoluta controtendenza, che ogni napoletano è Napoli, ogni napoletano ha una parte della città nel cuore, nel Dna. In questo senso Napoli è infinita, ed è dappertutto, anche qui, anche a Milano ci sono i napoletani, anche Milano è Napoli. L'uso della toponomastica serve proprio a rimanere radicalmente napoletani, e in questo senso mi piace utilizzarla per raccontare.
Cos'è per lei la letteratura e chi sono i tuoi autori preferiti?
La letteratura è principalmente senso, e direi naturalezza, cioè forma. Lo sforzo che compio per scrivere è in questa direzione. La parola è di per sé profetica, una profezia piccola, minuscola, come siamo piccoli noi uomini nel mondo intero. Luca Doninelli una volta mi ha detto che bisogna avere la pietà sulla punta della penna. Di conseguenza mi sento legato agli scrittori che tendono a dire questo, che stanno dentro questa dimensione e la raccontano, la testimoniano. Mi piacciono Carlo Emilio Gadda, Giovanni Testori, Goffredo Parise, Silvio D’Arzo, e poi Pasolini, Domenico Rea, tutti gli scrittori espressionisti del Novecento. Alla rinfusa dico: Melville, Faulkner, Bulgakov, Nabokov, Kafka, Singer, i russi dell’Ottocento, primo fra tutti Gogol. Ne ho dimenticato qualcuno? Sì, un bel po’!
Gli ultimi suoi libri sono interessanti al fine di ricostruire un percorso di formazione anche se capovolto
Scrivere non è una fissazione, né un vizio, né una civetteria, è un dono, qualcosa che mi arriva, mi arriva come senso a cui devo dare voce. Niente di nuovo, comunque, basta leggere Pirandello, i “Sei personaggi in cerca di autore”, e poi il suo scritto sull’immaginazione. Ma voglio ripetermi: senza la pietà niente esiste, lo scrivere deve incarnarsi, e mi scusi se lo dico così crudamente, per me la tecnica conta poco o niente. Bisogna che la scrittura si incarni in qualcosa. Ecco la verità dello scrivere e della letteratura.
Non usa la rete e non è social, per scelta. Questo la penalizza o l'aiuta a mantenere un rapporto più autentico con la realtà e quindi con la scrittura?
Non lo so, ci vedo qualcosa di ideologico nella rete, e nella tecnologia di oggi in genere. Me ne accorgo quando mi dicono: "Ma come non sei su Facebook? Uno scrittore come te?" Questo pedagogismo mi sembra sospetto, non ammette alternativa, parla con la voce di uno qualunque. Io ci leggo il potere dentro. Quello che vuol sapere chi sono, cosa penso. Insomma "1984" di George Orwell, oppure Dostoevskij, mi fa pensare al grande autore dei "Demoni", mi ha sempre colpito quando uno dei terroristi dice: "Diffonderemo il pettegolezzo". Si intende il pettegolezzo come arma, quello che mi sembra accada con i social.
Le piace frequentare invece fiere e manifestazioni letterarie e anche i lettori. Cosa trova di importante e di utile nel farlo?
Mi piace ascoltare, e poi credo molto nel confronto, quando è libero però. C’è sempre una sorpresa che ti arriva, la sorpresa, ecco un altro elemento umano dello scrivere. E poi, non è il poeta Celan che dice che la poesia è una mano tesa?
È nato a Napoli, vive a Milano ma le sue radici sono in Costiera
Ho radici profonde e solide, ma non ho il mito del lavoro. Quello che è importante è la gratuità, non chiedere e pretendere nulla, dare soltanto, e in modo libero. È questo modo di affrontare la vita è di ogni luogo. La mia famiglia è un’antica famiglia di imprenditori minoresi, della Costa Amalfitana, sono stato educato a dei principi molto particolari rispetto a un Sud costantemente in affanno, costantemente bisognoso.
Oggi i cani sono diventati sempre più presenti nelle nostre vite. Lei ha usato i cani come pretesto letterario per narrare una Napoli a tinte forti, ma estremamente poetica. Cosa ci puoi raccontare, ancora, di questo?
Niente è pretesto, tutto è scrittura, ed è scrittura se si incarna. Non mi interessa l’animalismo. Sono cresciuto leggendo e scrivendo poesie. Quando ero giovane leggevo e scrivevo decine e decine di poesie. Ho iniziato a quattordici anni, imitavo ora Dylan Thomas, ora Eliot, ora Rimbaud, ora Edgar Lee Masters (caso mai ascoltando De Andrè), ora Pound, ora Auden, e sono andato avanti così, educato allo spirito della parola poetica, che è di una ricchezza straordinaria. Una vera grande formazione totale per un futuro uomo.
La religiosità della scrittura è il tema che meglio in lei prende forma. Ci spiega le ragioni?
Scrivere è pregare, nella preghiera c’è una domanda. Non sono un prete, né ci tengo a esserlo, nello scrivere ci sento una domanda, una domanda che ha a che fare con una totalità straordinaria, oppure, diciamo che la scrittura ha un che di totale, che ti avvicina interamente al destino. Niente di sentimentale, bensì orizzonte spalancato sull’universalità della
Quanto conta per chi scrive la gentilezza?
Mi piace essere gentile. Lo sono naturalmente, rifiuto qualsiasi strategia. Attenzione però al formalismo, lo trovo pericoloso.
Insegnava Storia dell'arte, ritiene davvero che la bellezza sia salvifica?
Non lo so, aspetto di capire. La bellezza è una scoperta degli antichi greci, un misto di realismo e di idealità. La stessa bellezza è un mistero, come faccia a salvarci non lo so. Penso alle statue del Cristo in croce, guardo la sua bellezza e mi commuovo. La bellezza è Lui, la bellezza ideale dei greci è diventata un uomo senza fine.
A Napoli esiste, da tempo, un ospedale dei poveri e il suo libro “Come tutte le cose dell’universo” è in tema con questo.
“Come tutte le cose dell’universo”, racconta la carità a Napoli. Un uomo apre un banco di solidarietà a vico san Geronimo alle Monache, in pieno centro storico, che sbuca in via Benedetto Croce. Ogni personaggio che si reca al banco fa dono di quello che ha, lo consegna al suo destino, che è quello di diventare di un altro. C’è anche molta nostalgia in questo gesto del donare. I personaggi nel consegnare qualcosa, è come se consegnassero se stessi. Il dono è l’uomo. Un gesto unico, come è unico il gesto che compiamo ogni giorno, quello di vivere.
A Napoli esiste, da tempo, un ospedale dei poveri e il suo libro “Come tutte le cose dell’universo” è in tema con quanto lei scrive, allira perché ancora sopravvive questa idea sbagliata di una Napoli solo matrigna?
Napoli è matrigna perché si dona. Occorre capovolgere il senso delle cose, avere la forza di cambiare dentro di noi la storia, e guardare più in profondità, non come ci è stato ordinato di pensare. Domenico Rea scrive all’inizio de “Il Re e il lustrascarpe”, un libro del 1960: “Ma la cosa più straordinaria da cui sono stato colpito in quell’attimo di smarrimento è stata questa: mi è sembrato di scorgere che qualcuno cercasse di rubare qualche cosa alla città invece di darle qualche cosa perché divenisse la funzionale patria comune”. Ecco, se si ruba qualcosa, si ruba a chi ha, anche solo per se stesso, per egoismo, insomma, fino a scoprire che l’ultima parola a quell’egoismo non è stata ancora detta.
Come le capita di pensare alla vecchiaia ma soprattutto dove le piacerebbe vivere più in là
Vorrei vivere dove continuo a scoprire tutto il senso del mondo. Tutto il senso per cui sono stato fatto.
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