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Diabolik ci sei

Diabolik ci sei

Non è un brutto periodo per i frequentatori di cinema, di film da vedere ce ne sono diversi, nonostante le sale non siano particolarmente affollate, con l'esclusione di pochissime opere come quella di Paola Cortellesi e anche di Ridley Scott, per il resto della produzione cinematografica non ci sono segnali di ripresa, forse perché non esiste più un pubblico che vada a cinema a prescindere, e la stessa critica cinematografica, che dovrebbe considerare il complesso e il contesto di qualsiasi opera, non solo il dato commerciale ed emotivo, latita.
Per queste ragioni la partita si gioca sul dualismo manicheo ovvero sul fatto che il film possa essere bello o brutto, si passa alla scheda tecnica e tutto si risolve così, in pratica si fa il compitino ma chi scrive di un film può fare il compitino?
Il cinema è un'altra cosa, una serie di imbrogli meravigliosi come diceva Jean-Luc Godard, il cui unico scopo è quello di ricomporre o di scomporre il grande puzzle della vita, talvolta per tutta la durata del film, talaltra per pochi frammenti, perché l'imperfezione, a cinema come nella vita, è una delle più importanti tracce per continuare a portarsi dentro o dietro i fotogrammi che si rincorrono nei film, al punto da spezzare i nodi del quotidiano per andare oltre.
E per questo vorrei spezzare una lancia a favore del Diabolik dei Manetti& Bros, l'ultimo della trilogia che i registi hanno dedicato al celeberrimo fumetto delle sorelle Giussani, un film che sta passando sottotraccia e che invece meriterebbe un altro tipo di sguardo e una partecipazione di pubblico più grande.
Intervistati all'uscita del film a proposito del peso che ha avuto per loro questa trilogia i fratelli Manetti rispondono così
«Sicuramente quello di cui ci liberiamo di più è il fardello di una cosa più grande di noi. Non lo dico per retorica, ma il peso di qualcosa che la gente vive anche più di te, magari da tanti anni, lo senti. Ogni cosa che abbiamo fatto, ogni tentativo è sempre stato fatto con l’obiettivo di essere fedeli al fumetto. Qui il discorso si fa complicato, ma quando si parla di fedeltà al fumetto, molti la interpretano come aderenza alla forma d’arte, ma non può essere così. Se faccio un film sui Promessi sposi e dico che voglio essere federe al libro, non è che poi il film si sfoglia.
Ma siccome in Italia non c’è proprio una cultura di dare del “tu” al fumetto, quando diciamo che vogliamo essere fedeli a fumetto dicono: “Ah, ecco perché…” e iniziano a unire puntini che non esistono. Nel terzo film ad esempio c’è una parte in bianco e nero, ma non è che l’abbiamo messa perché il fumetto è in bianco e nero.»
Possiamo dare torto ai Manetti & Bros? No perché oggi a fronte di una possibilità infinita di scelta c’è una difficoltà di restituire al cinema una sua centralità altra, che non sia quella delle serie Tv (pure i film natalizi/alimentari per gli attori sono costruiti pensando già e solo alla Tv) ma che sia quella della sperimentazione e della confluenza dei generi più disparati che il regista fa scivolare nell’imbuto del film, che come ogni racconto che si rispetti deve andare così, come diceva Raffaele La Capria.
E perciò quelli che possono sembrare dei limiti in questo film, l'essere fedele al fumetto, avere allargato l'occhio di bue a discapito della guerra privata tra Diabolik e Ginko, ma a tutto favore della realtà e del mondo di Clerville, luogo fisico e metafisico in cui le avventure di Diabolik si snodano, e che dovrebbe corrispondere alla Costa Azzurra, un luogo molto più che cinematografico dove nel '55 le chat Cary Grant metteva a segno colpo su colpo, affiancato da una Grace Kelly splendida e molto più principessa di poi, si rivelano essere delle qualità.
L’occhio di bue dei Manetti &Bros si dilata talmente da fare partire il film con una rapina alla maniera dei poliziotteschi e con un capobanda come Massimiliano Rossi, attore soprattutto teatrale (che è presente anche in “Comandante” di Edoardo De Angelis accanto a Pierfrancesco Favino) dando un taglio alla storia molto più attoriale.
Perché il grande problema dei fumetti, che si trasformano in fotogrammi di celluloide, è proprio la capacità di rimane fedeli al testo in maniera teatrale, cosa che un fumetto più di una trasposizione letteraria necessita.
E non è che questo manchi al film, partendo già dal titolo amletico,dà il là alla storia che ad un certo punto si trasforma in una confessione a due, uscendo dal fumetto per entrare dritto dritto nel mondo di Ian Fleming, e del suo celeberrimo 007, per la precisione dell'ultimo 007 cinematografico dal titolo “No time to die", il più dolente e intimo di tutti, come questo Diabolik ripreso dall’omonimo albo a fumetti, il numero 107 del 2003. E che dire della bellissima Miriam Leone, una Eva Kant precisa che insieme all'Altea aristocratica ed emancipata di Monica Bellucci, allargano ancora di più lo sguardo del sognatore da poltrona dell’antro cinematografico.
C'è poi Giacomo Giannotti, Diabolik, che non fa rimpiangere Luca Marinelli, vista la propensione dei Manetti, in questo Diabolik, di entrare nel mondo di James Bond, perché è inevitabile che chi fa cinema si nutra dei resti degli altri e voglia andare oltre, e Giannotti più di Marinelli dimostra di avere le phisique du role.
Rimane il Ginko di Valerio Mastrandea, un po’ imbolsito e forse il meno in palla ma per il resto il film funziona perché i Manetti sono fedeli a loro stessi e chi conosce loro e ha letto Diabolik gradirà questo film.
Perché le sale non si riempiono? Perché ancora il pubblico non ha capito che il cinema è magia e per fare le magie serve essere fanatici ed imperfetti, quello che i Manetti sono e che pure chi scrive i fumetti è, e che la TV e lo streaming non sono luoghi magici.
Una particolare menzione va fatta ai calibro 35 e ad Alan Sorrenti.
«Davanti a un film interamente ambientato negli anni ’70 non poteva esserci nulla di meglio dei grandissimi Calibro 35 per realizzare i due brani originali. E per quello che apre il film, Ti chiami Diabolik, abbiamo voluto creare questo nuovo e inedito team up, coinvolgendo un artista come Alan Sorrenti, quella che per noi è la voce più funk che il nostro paese abbia mai avuto» spiegano i Manetti.
«Non sono mai stato un lettore di fumetti - aggiunge Alan Sorrenti - ma Diabolik è stato un’eccezione. Il suo personaggio ingegnoso, misterioso ed imprevedibile fece presa all’istante sulla mia immaginazione di adolescente. Pertanto non mi è stato difficile calarmi in quel mondo per scrivere Ti chiami Diabolik e interpretarlo sulla musica trascinante ed avvincente dei Calibro.»
Non ditemi che con tutta questa carne a cuocere “Diabolik - chi sei?” non è cinema, se mai pure d'essai, perché vi state sbagliando.

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