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Biografia di Josif Brodskij, il fotografo dell'anima

Biografia di Josif Brodskij, il fotografo dell'anima

In America sul comodino degli alberghi, si trova una copia della Bibbia. Da qualche anno, in quelli più importanti, si trova anche un libro di Josif Brodskij, un uomo convinto che la poesia, come le automobili, possa portare lontano (la poesia era per lui uno straordinario acceleratore mentale) e che il poeta sia l’animale più sano, l’unico che riesca a fondere il mondo razionale con il mondo intuitivo.
Josif Brodskij nacque a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina Sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.
S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali, daranno il ritmo al suo destino. San Pietroburgo era una città sospesa, lontana, affollata di odori, di ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, una città che in qualche modo Brodskij ritroverà in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in "Fondamenta degli Incurabili", attraverso un inimitabile gioco di specchi.
È quella città, insieme con una capacità non comune di raccogliere tutto ciò che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno. Incoraggiato dalla madre (aveva abbandonato la scuola a quindici anni) incominciò a studiare da autodidatta e a comporre le prime poesie.
L’apprezzamento dell’Achmatova e l’eco delle sue letture — in molti accorrevano per ascoltare la sua indimenticabile voce nasale, capace di sollevare le parole e farle danzare — lo resero inviso al Potere Sovietico. Accusato di fannullaggine sociale, fu processato e fu costretto a emigrare negli Stati Uniti.
Il 1972 è per Josif Brodskij l’anno dell’esilio, quello geografico, e il momento del distacco definitivo. Un distacco non solo fisico, ma anche espressivo. Da quel momento in poi la parola e l’uso della metrica, per Brodskij, non saranno più legati a un’urgenza comunicativa, ma impegnati nella costruzione di versi che nella parola trovavano la loro interna ragione.
Versi spezzati, singulti, capaci di lenire il dolore provocato da quel distacco che aveva trasformato un uomo giovane in un’icona di se stesso.
Una ricerca senza coordinate la sua, come si nota anche dalla diversa struttura delle liriche successive a quegli anni, liriche in cui si alternano momenti di lucida concretezza come in “24 dicembre 1971”, descrizione di un Natale sovietico, a momenti in cui l’evanescenza e la concettualità della parola diventano il "fil rouge" che imbriglia “Farfalla”, poesia da lui definita qualcosa a metà strada tra Mozart e Beckett. E poi “Parte del discorso”, dove le strofe, poco più che frammenti, diventano un modo per fissare dei lampi, squarci di ossessioni, piccole fratture, smagliature del quotidiano male di vivere.
E poi ancora poesie con strutture elaborate e organiche come “Ninna nanna di Cap Code”, una lettera in versi dedicata al figlio lontano, per arrivare al complesso, quello italiano, dove un posto di risalto occupa “Elegie Romane”, poesia dedicata a Roma e a Benedetta Craveri.
Roma è descritta come una città assolata, dove "il meriggio è colorato e assorto", il rimando/superamento a Montale è tutt'altro che causale (Montale era uno dei suoi poeti preferiti) e dove il passato è scandito dalla totale frantumazione dei tempi quotidiani e dalla sua memoria antica.
Il salotto borghese fa da contrappunto alla solidità delle statue, e alla classicità di una città che non nell’acqua, come Venezia, trova la sua ragione d’eterno, ma nella pietra. E il frantume diventa tanto più prezioso perché parte, ancora una volta, di un discorso, in una città in cui i frantumi si aggregano, dando forma e consistenza ad un luogo in cui è possibile trovare un approdo e un senso al proprio percorso terreno come chiaramente si legge nell’ultima strofa della poesia:
« Chinati, Ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridìo delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché questo vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è visibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto è vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che dividi in due, e ne resta ancora.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frantume! Una dracma
d’oro è rimasta sopra la mia rètina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.»
Divenuto cittadino americano insegnò in diverse università, svolgendo contemporaneamente una vasta attività di pubblicista e poeta.
Nel 1992 fu nominato Poet Laureate degli Stati Uniti.
Un particolare interessante di questo sua essere divenuto esule e occidentale fu il suo bisogno di conoscere Auden, la prima persona che volle incontrare, una volta arrivato in Occidente, l’unico che a suo parere, potesse sedersi sull’Enciclopedia Britannica, un modo questo per radicarsi a ciò che era e a ciò che da quel momento in poi sarebbe diventato: un poeta libero tra gli uomini.
Della sua condizione d’esule moderno, sospeso nel tempo, nello spazio, ci resta il discorso d’accettazione al premio Nobel per la Letteratura, premio ricevuto nel 1987, e pubblicato in “Dall'esilio” da Adelphi.
( 1 – continua )

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