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Analisi

La rivolta in carcere come forma di redenzione

Domenica 4 dicembre il carcere minorile di Potenza ha dovuto sedare un tentativo di rivolta da parte di tre detenuti stranieri, lì ristretti.

Rivolte al carcere di Melfi del marzo 2020: undici persone sono state arrestate

La notizia è importante perché mette in luce un problema diffuso, e non solo del minorile di Potenza, e cioè della difficoltà del carcere di fare fronte alle varie problematiche sociali.

Domenica 4 dicembre il carcere minorile di Potenza ha dovuto sedare un tentativo di rivolta da parte di tre detenuti stranieri, lì ristretti.
“Il problema del carcere minorile di Potenza è quello che non può assolutamente accogliere detenuti con problemi psichiatrici […] è completamente assente un servizio psichiatrico quotidiano tanto che lo psichiatra [….] interverrebbe ogni quindici giorni per poco più di un quarto d'ora” dichiara il segretario generale OSAPP.
La notizia è importante perché mette in luce un problema diffuso, e non solo del minorile di Potenza, e cioè della difficoltà del carcere di fare fronte alle varie problematiche sociali. Chi delinque, oggi più di ieri, non solo si dibatte tra una scelta di vita al di fuori delle regole, ma presenta, già da minore, difficoltà esistenziali tali da essere il carcere un luogo assolutamente inadatto, molto meglio le comunità, almeno chi è obbligato a risiedervi ha la possibilità di scegliere davvero una vita altra.
Considerazioni queste di buon senso e anche logiche e attuali se del reale si afferra non solo la superficie ma anche il resto. Il carcere è ancora un posto il cui unico scopo è di reprimere e punire, senza che questa repressione porti a un vero percorso di vita altra. Un fatto, quello di un altro percorso esistenziale, lasciato al caso e alla volontà di qualche singolo, singolo capace di intraprendere, in carcere, una strada di “redenzione”, un fatto più umano che squisitamente religioso questo della “redenzione”, perché il carcere continua a essere considerato un non luogo, non luogo cui consegnare chiunque non riesca a stare nel recinto sociale, al di là di tutte le ipotesi superficiali, ipotesi superficiali, manichee, e per questo totalmente inadatte a gestire una situazione di costrizione umana che è operata non solo dal luogo fisico, il carcere, ma dalla società tutta.
Le storie delle vite incasellate tra quattro mura a volerle scandagliare sono uguali, sono storie di abbandono, e di realtà scollegate da qualsiasi partecipazione sociale altra da quelle del clan, e del gruppo familiare chiuso a qualsiasi esperienza che non sia quella nota è perennemente uguale, un'esperienza che si nutre solo di briciole di vita incrostate tra mura e strade piccole, che si tratti di omicidi, di droga o di disagio psichico, disagio psichico che nel caso degli stranieri assume una rilevanza altra, più difficile da gestire perché in mezzo al disagio c’è un altro mondo ancora da inglobare per risolvere i problemi.
In moltissimi casi, in maniera particolare in quelli che sono i carceri minorili, l'esperienza della reclusione è anche la prima vera esperienza di socializzazione perché chi viene tradotto in carcere difficilmente prima è uscito di casa, e difficilmente si è misurato, nel privato più intimo, con persone diverse dai propri familiari.
Questo è un fatto che ho riscontrato quando frequentavo l’Icatt di Eboli, casa circondariale in cui vengono tradotti per lo più tossicodipendenti, e dove la qualità umana dei detenuti era alta e fragile, impastata a una visione del mondo ingenua e tragica, un mondo distante da qualsiasi altro, un mondo che difficilmente porta a incontrare la realtà, quella in cui si dibattono tutti gli altri che in carcere non finiranno, almeno non in maniera predestinata.
Il carcere come la morte non dà scampo, lì davvero l'impotenza è palese e tangibile. Tutto concorre a lasciare scorrere queste vite raggrumite verso il male, perché le classifiche in cui ci dibattiamo quotidianamente, quelle dei meriti e dei demeriti, trovano nella struttura penitenziaria la loro vera gloria, e poi in carcere finiscono solo i disgraziati, una cosa ottocentesca da cui mai ci siamo affrancanti, dimenticando che per lo stato di diritto, stato di diritto in cui viviamo, possiamo essere tutti passibili di pene, e lo siamo, ma come la morte il carcere è sempre troppo distante per poterci davvero toccare.
E allora le rivolte in carcere sono un attestato di sano realismo, un sano realismo che all'improvviso ci piomba addosso, come è accaduto a me che all'improvviso mentre parlavo del sapore del sangue, all’Icatt, stavo commentando un racconto, mi sono ritrovata a gestire un detenuto che si è denudato, un colpo di teatro, una violenta folata di vento, e mi ha mostrato la profonda ferita che aveva all'addome.
Perché lo fece? Non riusciva a spiegarsi come potessi io conoscere il sapore del sangue, forse qualcuno aveva sparato anche me (?), e quel suo denudarsi in quel momento aveva il valore della ricerca di un’eguaglianza di vita, una sorta di riscatto e di avvicinamento, anche se poteva passare per un atto di spavalderia. Lui non poteva sapere che la vita è fatta di conoscenze sul campo ma anche di studio, e che di certo a una persona che non delinque non passa per la testa di andare a sperimentare il sapore del sangue attraverso una sparatoria.
Eppure quell'immagine, che è dentro di me, è qualcosa di talmente doloroso e potente che ogni tanto mi taglia e mi fa sanguinare, come questa notizia sul carcere di Potenza, notizia di cui già si è persa traccia, perché marginale rispetto al racconto della grande storia del quotidiano globale, eppure quella ribellione sta a indicare che quelle persone vogliono esistere ancora, malgrado la repressione e stanno cercando un canale comunicativo, allo stesso modo in cui lo fece con me quel ragazzo a cui più che mettere dubbi in testa non potei dare.
E per queste ragioni, se trovo Gomorra in TV passo oltre. Mi repelle la rappresentazione di quel modo di vivere, barocco, violento, falso e totalmente distante dal mondo che noi, gli altri, abitiamo a fatica, e con un dolore diverso ma più consapevole. E verso questo nostro mondo imperfetto, in cui ognuno può decidere in che modo assaporare il sangue, senza dovere per forza morire, che dovremmo vivere tutti, lontani da case circondariali che anche nelle situazioni meno disumane possono al massimo essere intese come una pausa mai come una condanna di vita.

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