IL MATTINO
Sport in lutto
01.12.2025 - 17:16
Nicola Pietrangeli era un uomo del suo tempo, uno che era vissuto in un'epoca che è alle nostre spalle ma che condiziona ancora la vita in Italia, perché è storia recente. Apparteneva all'epoca dei nostri padri che hanno conosciuto la guerra e la fame, senza differenze di classe, perché l'Italia fu portata alla miseria con la guerra, e che quando si sono affermati nel proprio campo sono stati sempre pronti a ricordarci: "Sono stato il primo, senza di me sarebbe stato impossibile."
Il suo mondo di aristocratici, starlette, rotocalchi e bacia mano si è dissolto e per sempre, molto prima che morisse, grazie ad Adriano Panatta e al suo essere più acuto e umano osservatore del mondo. Quell'Adriano Panatta, che gli raccattava le palle da bambino al "Circolo del Tennis" di Roma, e che lo battè sul campo, e poi nella vita, dove ha dimostrato maggiore tenuta esistenziale, trasformandosi in un vecchio saggio. Quello che Nicola Pietrangeli non è mai stato, ma sarebbe stato contrario al suo DNA diventarlo, in fondo era un esule, un patriarca, e questo lo rendeva distante da chiunque altro, tranne che da sé.
Janik Sinner e le Coppe Davis vinte, in questo ultimo triennio dall'Italia, hanno poi fatto il resto, e perciò l'unico modo per ricordarlo, per non scadere nell' ipocrisia post mortem, è renderlo protagonista di un racconto.
Il suo.
Nicola Pietrangeli un narciso irrefrenabile dalla smorzata perfetta
Ci sono destini che sembrano scritti prima ancora che qualcuno impari a leggere. E quello di Nicola Pietrangeli cominciò in un luogo che oggi sembra uscito da un sogno lontano: la Tunisi degli anni Trenta.
Una città sospesa tra sabbia e mare, dove si mescolavano lingue e profumi, dove bambini francofoni giocavano accanto a pescatori arabi e coloni europei.
In quella cornice calda e polverosa, l’11 settembre 1933, nacque un bambino che avrebbe portato con sé, per tutta la vita, un’aria un po’ straniera, un po’ malinconica, un po’ elegante.
Era figlio di un italiano e di una russa.
In casa si parlavano più lingue di quante stanze ci fossero, e il piccolo Nicola cresceva in quel miscuglio con naturalezza.
Non aveva ancora capito che, un giorno, quel bagaglio di culture e di sfumature, sarebbero diventate una parte essenziale del suo fascino.
Poi arrivò la guerra e con la guerra arrivò il kaos.
Non c’erano circoli, non c’erano maestri, non c’erano campi perfetti.
C’erano recinzioni, polvere, filo spinato.
Eppure, proprio lì, in uno dei momenti più confusi della sua vita, trovò qualcosa che gli parlava più di qualsiasi parola. Una racchetta, improvvisata, precaria, quasi comica ma sufficiente.
In un campo di prigionia si disputò un piccolo torneo e lui, bambino magro, lo vinse.
Il premio era un pettine ricavato da un frammento di bomba.
Non poteva immaginarlo, allora, ma quello fu il primo trofeo della sua carriera. Una scintilla.
La prima.
Quando la famiglia fu espulsa dalla Tunisia, Nicola arrivò a Roma senza radici e con l'accento straniero.
Imparò l’italiano tardi, quasi come si impara una musica di cui si conosce già il ritmo, ma non le parole.
Roma, però, lo accolse.
Non come un figlio, ma come si accoglie un viaggiatore speciale.
E fu lì, tra i circoli romani, che Pietrangeli divenne finalmente Pietrangeli.
Aveva un’eleganza innata, un modo di muoversi, che sembrava scritto nella sabbia tunisina, fluido, intelligente.
Il tennis, per lui, non era forza, ma era intuizione, danza, magia.
Negli anni Cinquanta, mentre l’Italia usciva dalla guerra e imparava di nuovo a sorridere, lui stava già girando l’Europa con una racchetta leggera e uno sguardo determinato. Pietrangeli era elegante, quello che, anche quando perdeva, sembrava avere vinto in stile, ma quando vinceva lo faceva in un modo che nessun altro sapeva imitare.
Il 1959 fu l’anno in cui la sua storia diventò leggenda, il suo talento sbocciò definitivamente.
Aveva un gioco fatto di sensibilità, tocco, anticipi, smorzate.
Non era un bombardiere, non era un atleta nel senso moderno del termine, era un artista, e il Roland Garros divenne subito il suo palcoscenico naturale.
A Parigi, tra la polvere rossa del Roland Garros, Pietrangeli vinse il suo primo titolo dello Slam.
Un italiano che trionfava sulla terra rossa più famosa del mondo. Nessuno ci aveva mai creduto davvero, lui si.
L’anno dopo lo fece di nuovo, con una naturalezza che ancora oggi stupisce.
E fu lì, tra il 1959 e il 1960, che Nicola diventò ciò che resterà per sempre: il signore italiano della terra rossa.
Non erano vittorie casuali le sue, ma il risultato di un modo nuovo di interpretare la terra battuta: una danza elastica, furba, precisa.
In quegli anni, Pietrangeli era tra i migliori tennisti del mondo (spesso indicato tra i primi tre) e il suo nome iniziava a circolare come quello di un campione globale.
Nel 1960 raggiunse anche la semifinale a Wimbledon, sfiorando un’impresa che lo avrebbe reso immortale in Inghilterra, ma quel traguardo bastò comunque a consegnarlo alla storia.
Quel prato, così lontano dalla sua terra d’infanzia, avrebbe potuto regalarli un altro pezzo d’immortalità.
Non accadde, ma non importa, Pietrangeli rimase uno degli uomini più ammirati del torneo.
A ciò si aggiunsero i risultati in doppio, soprattutto con il compagno Orlando Sirola.
Insieme formarono una delle coppie più forti di quegli anni.
Era bello vederlo giocare.
Chi lo ricorda parla del suo rovescio come di un gesto di pittura, di uno stile che non cercava di dominare l’avversario, ma di sedurl.
Una smorzata, un pallonetto, un cambio di ritmo.
Un piccolo teatro, ogni punto.
Ma forse il capitolo più romantico della sua carriera fu la Coppa Davis. Pietrangeli non diventò soltanto il simbolo di quella competizione in Italia, ne divenne l’anima.
Disputò 164 partite e ne vinse 120, trascinando il Paese sulle spalle per quasi venti anni.
Divenne capitano della squadra italiana. E nel 1976, in un anno che sembrava scritto dal destino, guidò l’Italia alla conquista della sua prima Coppa Davis.
Il bambino del campo di prigionia era diventato l’uomo che portava un Paese intero sul tetto del mondo.
Quando smise di giocare, negli anni Settanta, non si allontanò dal campo.
La Federazione gli affidò la Nazionale.
Da capitano, nel 1976, guidò l’Italia verso un’impresa che nessuno aveva mai osato immaginare: la conquista della Coppa Davis.
Fu la chiusura perfetta del cerchio, la conferma che la sua figura non era solo quella del campione, ma del leader, del simbolo stesso del tennis italiano.
Negli anni successivi diventò un punto di riferimento: commentatore, dirigente, testimone prezioso di un’epoca.
Nel 1986 entrò nella International Tennis Hall of Fame, il tempio mondiale del tennis.
Un riconoscimento che nessun altro italiano aveva ottenuto.
Ma i numeri non raccontano gli occhi degli italiani che lo guardavano ogni volta scendere in campo come se stesse difendendo qualcosa di sacro.
Gli anni seguenti furono quelli di un patriarca del tennis, con le sue giacche impeccabili.
Nel 2006, mentre camminava tra statue e pini marittimi al Foro Italico, vide lo stadio intitolato al suo nome.
Da vivo.
Pietrangeli non è stato solo un campione, è stato il primo italiano a dimostrare che si può vivere con il talento, con la bellezza, con l’intelligenza.
E ancora oggi, se al Foro Italico si resta in silenzio qualche secondo, sembra quasi di sentire una smorzata perfetta cadere appena oltre la rete.
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