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Il paese che non deve morire/Seconda puntata

Adottiamo San Paolo Albanese, il paese più piccolo della Basilicata, dove si combatte ogni giorno la battaglia contro lo spopolamento

Duecento anime, nessuna scuola, pochi servizi. Eppure qui sopravvivono una lingua antica, il rito greco-bizantino e un senso di comunità che altrove è sparito

Adottiamo San Paolo Albanese, il paese più piccolo della Basilicata, dove si combatte ogni giorno la battaglia contro lo spopolamento

Il Mattino di Puglia e Basilicata ha deciso di adottare San Paolo Albanese perché questo borgo di appena 204 anime è un simbolo. È l’ultima frontiera di un’Italia che rischia di sparire senza che nessuno se ne accorga. La frase contenuta nel Piano nazionale delle aree interne – quella che parla di «declino irreversibile» e di una «chiusura dignitosa» – è stata come un colpo di pistola nel silenzio della Val Sarmento. Che suona come resa dello Stato. E non si può accettare. Adottare San Paolo Albanese significa schierarsi dalla parte di chi resiste. È un modo per dire che un giornale non deve soltanto registrare il declino, ma può e deve diventare un alleato di una comunità dimenticata. San Paolo è il comune più piccolo della regione, ma dentro di sé custodisce un patrimonio immenso: la lingua arbëreshë che ancora si parla in casa, il rito greco-bizantino celebrato in chiesa, i costumi tradizionali tramandati dalle donne, le feste popolari che ogni anno riportano emigranti e viaggiatori. Qui non c’è folklore da cartolina, c’è identità. Un giornale che nasce e vive tra Puglia e Basilicata non può permettere che il paese più fragile venga accompagnato al cimitero delle statistiche. Per questo il Mattino di Puglia e Basilicata ha scelto di adottarlo. Non con sterile retorica, ma con una campagna quotidiana che racconterà il borgo per quello che è: un laboratorio di resistenza, un avamposto culturale, un pezzo d’Italia che merita di essere conosciuto. Lo facciamo perché crediamo che raccontare equivale a proteggere. Perché dare voce a San Paolo Albanese significa restituirgli dignità, farlo uscire dall’invisibilità, far capire al Paese intero che se cade lui, cade un intero modello di convivenza. Adottarlo, per noi, significa affiancare i cittadini nella loro battaglia. Oggi la seconda puntata. 

Al mattino il bar tabacchi è il cuore pulsante. È lì che i pochi abitanti si scambiano le notizie, che si commenta la riapertura a singhiozzo dell’ufficio postale, che si ricordano i tempi in cui c'era ancora la scuola elementare. Ma nonostante i servizi essenziali continuano ad assottigliarsi, aumenta la forza della comunità. Ognuno conosce il vicino per nome, ognuno è custode dell’altro. Qui la solitudine non è mai totale, perché basta bussare a una porta per trovare una voce che risponde. Le donne che indossano ancora il costume tradizionale sono ormai poche ma ci sono. Le incontri nei vicoli stretti, sedute su una sedia davanti alla porta di casa, con i merletti antichi cuciti sul petto. Non lo fanno per folclore, non è per i turisti: lo fanno perché quella è la loro seconda pelle. Quando la chiesa apre le porte al rito greco-bizantino, le parole scivolano in un idioma che pare sconosciuto e invece è memoria viva. È lì che capisci che questo minuscolo paese custodisce un patrimonio che nessuna metropoli potrà mai replicare. Il paesaggio è l’altra grande ricchezza. Intorno, il Pollino respira come un gigante addormentato. I boschi di faggio, i pascoli, i dirupi custodiscono silenzi che nelle città non esistono più. Qui il silenzio non è assenza, è presenza: di vento, di rapaci, di memorie. Scendendo per i sentieri si incontrano pastori. Il tempo è ancora scandito dalle stagioni. E questo è un lusso che in tanti hanno dimenticato. Qualcuno direbbe che vivere qui è impossibile. Ma chi resta non lo fa per caso. Lo fa perché qui c’è una radice che non vuole tagliare. Una radice che ha a che fare con la lingua arbëreshë che sopravvive nei dialoghi quotidiani, con la comunità che celebra ancora le feste. Lo fa perché sa che fuori da qui c’è il rischio dell’anonimato, della dispersione, della perdita di identità. San Paolo Albanese non è un luogo comodo. È un luogo necessario. Necessario a chi cerca la verità delle cose semplici, necessario alla Basilicata che rischia di perdere dei pezzi importanti, necessario a un’Italia che dimentica i suoi margini. Adottare San Paolo Albanese, come abbiamo scelto di fare, significa adottare un pezzo di anima che resiste. Significa proteggere la lingua, i riti, i silenzi, le donne con i vestiti tradizionali, i bambini che ancora imparano l’arbëreshë dai nonni. Significa ammettere che i luoghi più piccoli sono importanti. 

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