IL MATTINO
11.05.2025 - 17:05
Nel panorama politico italiano (come ampiamente descritto) c’è una figura che ricorre con puntualità liturgica: l’imprenditore di estrazione cattolica che, dopo anni di onorata attività economica, decide ad un certo punto di “scendere in campo” per il bene comune e lo fa rigorosamente dal lato sinistro della barricata. Non la sinistra operaia e proletaria, figuriamoci quella antagonista, ma da un pulpito moderato, riformista, borghese e tecnocratico spesso travestito da “centro civico antisovranista”, “campo largo”, “progressismo pragmatico” e chi più ne ha più ne metta. Il brand cattolico, in tutto questo, è l’assicurazione sulla vita. Serve a giustificare ogni eccesso: dal gusto per il lusso all'iconografia dell’immagine pubblica. Perché non c’è niente di più potente di un imprenditore che si presenta come uomo di fede: automaticamente è incensato, rispettato, stimato e quando si candida diventa “l’alternativa civica” che sta “sopra”. Sopra il fango, sopra la mediocrità, sopra le critiche. A prima vista potrebbe sembrare un’anomalia. L’imprenditore, simbolo del capitale e delle gerarchie aziendali, che si riconosce nei valori della sinistra 2.0? Eppure nella tradizione italiana — e più ancora in quella cattolica — questa scelta ha radici profonde e tutt’altro che incoerenti. Anzi rappresenta la prosecuzione perfetta di un progetto che dalla Democrazia Cristiana arriva fino ai cattolici “adulti” del centrosinistra contemporaneo. Per capire questo fenomeno bisogna tornare alla dottrina sociale della Chiesa, formalizzata tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra. Da quella Rerum Novarum di Papa Leone XIII tornata in auge proprio in questi giorni con il nuovo successore di Pietro, Leone XIV, a Centesimus Annus, la Chiesa ha sempre cercato una terza via tra capitalismo sfrenato e socialismo rivoluzionario. Nasce così il cattolicesimo sociale che parla di dignità del lavoro, di solidarietà, di sussidiarietà. L’imprenditore cattolico che a modo suo assorbe questi principi si convince, per davvero, di essere il mediatore illuminato e perfetto tra il mercato e la giustizia sociale. Negli anni della Prima Repubblica queste idee si incarnano nella DC dove l’imprenditore e il sindacalista cattolico convivono sotto lo stesso tetto. Con la fine della DC, il collante ideologico si disgrega, ma non muore: si trasferisce. Il mondo cattolico non sparisce, migra. E il suo habitat naturale diventa la sinistra in cerca di anima. Ma questa è un'altra storia. L’imprenditore cattolico, pertanto, da parte sua, ha bisogno di una tribuna che lo accolga senza sospetti. La destra, troppo rozza, cinica e sfacciata per essere degna di stima in certi ambienti gli è culturalmente estranea. Il sovranismo lo spaventa, il liberismo puro lo imbarazza. La sinistra “gentile” gli consente di parlare di sostenibilità, inclusione, immigrazione sfrenata e tante cose petalose senza dover mettere in discussione i propri privilegi. Questa dinamica è alimentata da un altro fattore: la necessità di manifestare una presunta superiorità morale. Il cattolico impegnato — soprattutto se benestante — ha bisogno di sentirsi dalla parte dei buoni. Ma non è disposto a rinunciare alla propria posizione. Il risultato è un’imprenditoria pseudo-progressista che parla il linguaggio dell’etica, ma pratica una gestione puramente utilitarista con carta di credito aziendale sempre a tiro. Si affida ai valori solo quando sono spendibili in termini reputazionali. È una fede a basso costo, che redime senza chiedere sacrifici. Una religione d’élite. Si riconoscono subito: sorrisi compostissimi in mezzo ai bambini, braccia amorevoli attorno ai disabili, sguardi pregni di amore con la nonna centenaria della Rsa. Sono i manager del bene comune in abito sartoriale, i lobbysti del crocifisso, i CEO della carità con pedigree clericale. In pubblico citano Papa Francesco, in privato applicano Attila: dove passano loro non cresce più un briciolo di mutualità. Altro che economia francescana, meglio la finanza trinitaria: presidente, collaboratore e Spirito santo e fiduciario. Il cattolicesimo, per loro, è un orologio svizzero di pregio: lo indossano solo quando serve per accreditarsi dove conta. Appena la questione è profana l’umiltà evangelica si trasforma in freddo e spietato calcolo da holding. Questa è la loro teologia operativa: la carità come veicolo reputazionale, la fede come strategia di mercato, la Chiesa come piattaforma di lancio ogni volta che serve una copertura etica. Peccato che proprio Papa Francesco dal primo all'ultimo giorno abbia ripetuto tassativamente: la Chiesa non è una ONG, la carità non è una strategia imprenditoriale. Ma loro, niente: anzi rivendicano proprio quelle parole mentre sorseggiano pregiato champagne. E se nel mezzo ci scappa qualche villa con piscina, pazienza: il Vangelo infondo parla anche di acqua. Alla fine, non sono imprenditori né manager né politici. Sono sacerdoti laici di un culto personale, dove il Dio è il profitto e l'unica religione il potere. Siamo circondati da santi senza miracoli e santoni della consulenza, apostoli del bilancio e missionari in Maserati. Ma almeno una cosa l’hanno capita bene: il regno dei cieli può attendere. Intanto prendono tutto quello che c’è in terra.
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