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25.04.2025 - 19:21
C’è una categoria sempre più chiassosa e inquinante nel panorama italiano del sociale. Non sono le lobby farmaceutiche, non sono i costruttori di armi, non sono nemmeno i grandi evasori che almeno non hanno la pretesa di sembrare virtuosi. No, qui parliamo di una fauna diversa e "profumata d’incenso". Parliamo degli imprenditori di ispirazione cattolica - categoria che, in molti casi, andrebbe inserita direttamente nei bestiari medievali accanto ai mostri mitologici: hanno due volti, quattro mani (una per firmare convenzioni, una per accarezzare il crocifisso), e una fame insaziabile. Di soldi, di visibilità, di potere. Sono quelli delle cooperative sociali che lavorano come Spa, ma si presentano come missionari del bene comune. Quelli che si battono il petto la domenica, ma il lunedì si lanciano nel mercato della sofferenza altrui con la stessa voracità di un fondo speculativo. Li riconosci subito: sono sempre presenti nei convegni con le parole giuste, nei salotti che contano, nei comunicati stampa dove si autocelebrano per l’impatto sociale, mentre sul campo le loro strutture sembrano più luoghi di parcheggio che di accoglienza. Loro si definiscono "cattolici". Ma attenzione: cattolici di convenienza, non di conversione. Cattolici a gettone. In molti casi la spiritualità è poco più di un’etichetta utile per accreditarsi presso le istituzioni, le diocesi, le fondazioni. È marketing dell’anima, storytelling confessionale. E funziona: niente come un’aura di religiosità per ottenere favori e legittimità morale. Ma dietro questa facciata devota, c’è spesso una gestione che di cristiano ha poco o nulla. Altro che Vangelo: qui si applica piuttosto il manuale di management delle multinazionali, con tanto di strategie di branding, ottimizzazione dei costi e logiche di profitto. Alcune cooperative, nate per essere strumento di mutualità e giustizia sociale, si trasformano in macchine da guerra amministrative. In questo teatrino, il povero, il migrante, la persona con dipendenze diventano funzioni, codici progetto, budget da giustificare. Non esseri umani da aiutare, ma indicatori di performance, pedine in un gioco a somma positiva solo per chi sta ai vertici. Ma alla fine i risultati sono spesso inconsistenti, quando non apertamente fallimentari. Chi si “cura” davvero? Chi si reinserisce? Chi smette? Chi viene integrato? Sono domande scomode, a cui spesso si risponde con nuove progettualità, un modo elegante per dire: “non abbiamo risolto nulla, ma abbiamo un'altra idea da finanziare”. È il capitalismo spirituale, versione 2.0. Dove non si vende più solo un prodotto, ma un’immagine: quella del buon samaritano con partita IVA. Il problema non è la fede. È l’uso cinico della fede. È la strumentalizzazione della religione per costruire carriere, reputazioni, imperi cooperativi. È la totale disconnessione tra ciò che si predica e ciò che si fa. È l’incapacità, o la mancanza di volontà di rispondere davvero ai bisogni reali delle persone. Eppure, continuiamo a lasciarli fare. Perché sono "dei nostri", perché parlano bene, perché conoscono i vescovi, i politici, i direttori generali, i burocrati e i faccendieri. Perché “almeno fanno qualcosa”, ma mentre parlano di carità, progettano utili a più zeri.
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