IL MATTINO
Cinema
15.10.2024 - 11:50
“Il tempo che ci vuole”, l’ultimo film di Francesca Comencini, presentato fuori concorso a Venezia81, è un mémorie, ed è il film più riuscito della regista romana, figlia minore del regista Luigi Comencini.
Non è la prima volta che l'autobiografia prende il sopravvento nelle opere di Francesca Comencini, già in “Pianoforte”, il suo film d'esordio, narrava di quel pezzo di sé, privato e sofferto, trascorso in compagnia della droga, e di Carlo Rivolta, cronista prodigio e pupillo di Eugenio Scalfari, che lo aveva assunto a “La Repubblica” a ventotto anni, proprio e anche per le sue inchieste sulla droga, che in quegli anni era un mondo a parte. Mondo che risucchiò un’intera generazione e lo stesso Rivolta, come era capitato a tanti altri giovani. In questo caso, l'episodio della tossicodipendenza della Comencini, è inserito nel contesto del rapporto globale e personalissimo con il padre (la madre e le tre sorelle sono escluse dalla narrazione cinematografica) a sottolineare, in maniera più specifica, la grossa tenuta nervosa e morale del genitore, che una volta capito il problema, ma solo dopo avere trovato la figlia in bagno ad iniettatiarsi la droga, la prende di petto e la porta altrove, senza fare drammi, comprendendo la gravità della situazione, ben conoscendo la fragilità della ragazza, che osservava in maniera maniacale.
E infatti questo è un film dove i drammi non ci sono, e dove qualsiasi difficoltà viene rapidamente fluidificata da Luigi Comencini, che sente, da sempre, di dovere accudire e di dovere fare da sponda a sua figlia, in maniera totale e senza sdolcinature.
Il senso del lavoro del regista è sottolineato dai suoi film, film nei quali Francesca si muove trasformata, con la voglia di viverli e di rimanerci per sempre sui set e dentro le inquadrature del padre, mentre il padre la osserva e ne comprende tutte le asperità, la “viviseziona”, così da scorgere il proprio riflesso in maniera precisa, puntuale, tanto da fargli accettare le inquietudini, che poi diverranno difficoltà esistenziali, una volta che la figlia sarà cresciuta.
Nel mentre la vita vera si interseca con quella cinematografica. Il terrorismo, il sequestro Moro, e tutto ciò che fa da sfondo allo spazio denso del mondo del cinema, che non assorbe solo il padre, ma sempre di più la figlia.
Fino a quando la domanda che la figlia fa al padre, e la sua risposta, risposta che dà Il titolo al film “Tutto il tempo che ci vuole” (in occasione della scoperta della sua tossicodipendenza e dell’allottamento impostogli dal padre) non cambia, e per sempre, lo sguardo della bambina, e li fa camminare, padre e figlia, in sincrono e da adulti.
Il cinema italiano, che oggi soffre di claustrofobia e di quella dimensione sempre, più ridotta, delle descrizioni di vite osservate al microscopio ma scarsamente sviluppate verso l'esterno, trova in questo film un momento di respiro e anche di riscatto. Ne "Il tempo che ci vuole" non abbiamo la narrazione solo di porzioni di sé, mentre tutto si perde nelle microstorie senza profondità, perché commoventi o disturbanti solo per esigenze di sceneggiatura. Questo film racconta, al contrario, il passato e il presente di tutti, perché è l’eterna narrazione del dolore della perdita, quella degli affetti più cari e insostituibili, come può essere quello di un padre, che non è raccontato attraverso un passaggio di consegne sociali ed economiche ma attraverso il riconoscimento umano dei cromosomi. Ed è per questo che entra sotto pelle, tanto da essere il primo e vero film di Francesca Comencini, liberata finalmente dalla autobiografia e a questo punto capace di andare oltre se stessa.
Ma in questo film è preponderante anche la scrittrice Francesca Comencini, e infatti la storia che narra è non solo disposta come una rappresentazione filmica ma anche come un romanzo, dove le due figure del padre e della figlia assurgono a protagonisti anonimi, nessuno li chiama per cognome, sono i loro fantasmi cinematografici e letterari a definirli, tanto da essere il film un romanzo di formazione vero e proprio con rimandi, citazioni, incrostazioni di realtà vivissimi.
I due attori che ha scelto per interpretare suo padre, Fabrizio Gifuni, e Romana Maggiore Vergano, come alter ego, hanno perfettamente capito come muoversi e quali corde devono fare vibrare per essere nella parte.
E se Gifuni quasi si confonde con la stessa immagine fisica del regista Comencini, restituendogli vita e sentimento, senza nessuna concessione al sentimentalismo, la Vergano invece è trasfigurata dell'affetto che prova per il padre cinematografico e come Gifuni lo è in maniera sobria, misurata, tutte doti cui i due Comencini, padre e figlia tengono.
«Il film è cominciato abbastanza in cronologia, quindi prima Fabrizio Gifuni con la bambina, Anna. Una bimba meravigliosa, libera sul set. I bambini non devono recitare, devono giocare, come mi ha insegnato mio padre. Poi è arrivata Romana, che è stato amore a prima vista. Oltre alla sua bravura, è stata prodigiosa, come Gifuni, incredibilmente generoso nei suoi confronti. Si è creata subito una fortissima magia, superando la stessa sintonia.»
È anche questo un film che parla ai bambini per arrivare ai grandi, come sapeva fare Luigi Comencini, e questo dato quasi cronachistico, lo rende un documento non solo affettivo ma anche un dono per la memoria collettiva.
Nel film in ogni caso accanto alle rievocazioni filmiche paterne si sprecano anche quelle al mondo cinematografico degli cineasti, che come suo padre hanno lasciato il segno in Francesca Comencini: il Rossellini di Paisa, il “Pinocchio” muto di Giulio Antamoro, le riprese a Napoli di “Marcellino pane e vino” che fu l’ultimo film girato da Comencini, nel 1991, tra i richiami più importanti, nonché quelli letterari.
«Ricostruire i set di Pinocchio è stata la cosa più divertente di questo film. Quello che io volevo fare era intanto restituire il senso del lavoro collettivo, del fatto che c'è tantissima gente che lavora. E anche la sensazione che io avevo, forse non proprio reale, di caos, di carnalità, di urla, di vita. E poi, ovviamente, il senso della fiaba. E per una bambina l'immaginazione è l'elemento quotidiano. » […] Ci sono alcuni omaggi che ho voluto rendere a mio padre. Gli insegnamenti che mi ha trasmesso, e uno dei quali è proprio il valore del fallimento. La vita è una serie di fallimenti. Fallire sempre non importa. Tentare ancora, fallire ancora, fallire meglio. Questo è un insegnamento importantissimo, che ho voluto trasmettere attraverso il film, in un momento in cui siamo tutti, e soprattutto i giovani, pervasi da una forzatura alla performatività, al successo, al mito perfetti. Dobbiamo riscoprire il diritto al fallimento».
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